Il criminale riu Matzeu
Siamo tornati questa primavera a visitare questo criminale riu Matzeu e abbiamo trovato un greto morto.
Nessuna sorpresa quella sera dell’autunno 1946 quando cominciò a scorrere sulla città una fiumana d’aria, e brividi e guizzi e serpi di fuoco giocavano nel cielo nero. È che già da alcune ore si sapeva dal bollettino meteorologico che sul Mediterraneo svolazzava una legione di spiriti maligni dai paesi gelati.
Passanti rincasavano frettolosi e rievocavano con frasi un po’ convenzionali notti tragiche dell’ultima guerra. Da alcune finestre piovevano parole come: festa pirotecnica, razzi, petardi e girandole. Altri, forse proprietari di terre, affrettavano il passo parlando allegramente della pioggia che ci voleva dopo quasi due anni di sete.
Poco dopo un vasto soffio quasi sulfureo spense le luci: la città disparve: non ne restarono che gridi di donne per lumi e candele. Ma questi gridi morirono subito perché già gli spiriti neri svolazzavano ai vetri, carri di tuoni rotolavano in discesa, folgori guizzavano, il vento faceva il lupo. Ed ecco in un punto solo una solenne quiete, una calma immensa, un’attesa di portento. La quale fu rotta d’un tratto dalla deflagrazione orrenda di un enorme ordigno. Senza quasi intervallo seguì un rovescio liquido: le nubi si erano lasciate andare sui tetti e sulle strade, e all’istante acque entrarono in tumulto cercando alla cieca discese, salite, cantine.
Gridarono allora le prime trombe. E il vento con un’istantaneità che escludeva una semplice coincidenza evase dalla città, si diede alla campagna e in poco fu distante. La bufera diede segno di passare. Acque numerose fuggivano ancora, ma già la pioggia cadeva come piace ai contadini. Si sentiva un rimestio come di gente che esca dai nascondigli, quando tra esclamazioni di festa ritornò la luce alle case e alle vie, ritornarono i prodi pompieri alle caserme: e la gente ebbe quasi voglia di baldoria, ma era troppo tardi, perché non se ne andassero a dormire. Alle prime luci dell’alba la città si risvegliò di soprassalto: strilloni gridavano: nubifragio, villaggi e campi distrutti, morti e feriti, bambini scomparsi. Di tanti delitti veniva incolpato un piccolo fiume. Uno scherzo di fiume, ma che fiume, un torrente, un rio. Il riu Matzeu. Un vermiciattolo, che solo le mappe registrano per troppo scrupolo. Lo chiamavano omicida, e più volte recidivo. Popolane lo maledicevano anche. Una notte di furia, di febbre criminale, si sentiva dire, lo assale ogni cinquanta anni. Cinquant’anni fa all’incirca, infatti, essendosi aperte le cateratte del cielo quel piccolo rio delirò, uscì dal suo letto, dilagò nei campi, aggredì i villaggi, salì fin sui tetti delle case di fango, le schiacciò e le travolse, poi con la sua preda di mattoni crudi, masserizie, provviste, alberi e bambini si riversò in uno stagno d’acque putride e dense. Parole avverse furono gridate e scritte contro i potenti. I potenti visitarono i luoghi, elargirono soccorsi caritatevoli, promisero briglie e argini, e case forti: ma poi riapparve qualche squarcio d’azzurro, poi si affacciò, come dopo l’antico diluvio, l’arcobaleno: le acque si ritirarono, vennero ricuperati e seppelliti i morti, quelli soltanto che non erano finiti nello stagno, la vita s’impaludò un’altra volta, i potenti si perdettero in disegni e guerre, il piccolo rio e le case d’argilla furono dimenticati. Se non è pura invenzione, gli anziani dei villaggi fecero al piccolo rio un incantesimo, il quale però, - hanno del resto una loro scadenza gli stessi sieri moderni - sarebbe stato valido per cinquant’anni, ed era quindi da rinnovarsi a tempo opportuno. Pare che gli anziani abbiano commesso l’errore di non rinnovarlo. Ma è un errore, è un’imprudenza? O non piuttosto amnesia? Amnesia fatale, si direbbe: posto che questi risvegli criminali del piccolo rio si ripetano da secoli, di cinquanta in cinquanta anni. E di cinquanta in cinquant’anni anche i potenti fatalmente si risvegliano e promettono briglie e argini e case forti, e poi viene l’arcobaleno ed essi si perdono in disegni e guerre.
Chi salverebbe i superstiti? I morti furono seppelliti. Ora le nuvole finivano di dileguare, il sole era alto, la terra dava qualche segno di asciugarsi. Già i superstiti guardavano con occhio asciutto ed esclusivo i mattoni sparsi, si preparavano a disputarseli per tirar su un’altra volta col fango le loro capanne. La città forte era sull’altura, a pochi passi da quella cintura feudale di villaggi fragili e malati. Ecco sono passate le ore, passati i giorni, e i mesi; è arrivata la primavera, la terra che fu lavata e derubata dei semi non darà molti frutti, non si vedono ombre d’alberi. A quel tempo, si pensava, chi sa, sull’area delle case travolte non vedremo altre case di fango. Oggi quasi temiamo che le donne vadano in riva allo stagno per cantare i morti che dormono nel fondo. Andiamo, andiamo. Fra altri cinquant’anni, se i potenti non provvederanno e forse anche prima se gli anziani non penseranno a rinnovare l’incantesimo, il piccolo rio si risveglierà demente, delirerà nella notte, uscirà dal suo alveo, travolgerà un’altra volta queste case d’argilla, travolgerà nello stagno altri bambini.
E la città alta, di pietra, con le sue torri che resistono ai venti, sarà risvegliata di soprassalto, come quella mattina di autunno, dagli strilloni.
pubblicato sulla rivista: Il Politecnico, nel novembre 1947
Nota:
Di questo resoconto dell’Orotellese Cambosu, avevamo apprezzato da tempo l’aspetto poetico.
Ma, fu il nome di questo famigerato Riu Matzeu che sconvolse i nostri sonni.
Infatti, quel personaggio storico che ci proviene da Pompeo Trogo e Giustino, che tutti gli storici si prodigano a chiamare Malco, noi (e pochi altri) appellammo Mazeus perché quello che ritenemmo il più fededegno manoscritto a noi arrivato, così lo definiva. Orbene, appena leggemmo il poetico pezzo del Cambosu ci precipitammo a consultare le tante carte geografiche della Sardegna in nostro possesso per scoprire ove fosse sistemato il criminale Riu Mazeus (così ci piace qui nomarlo). Con nostro grande rammarico non approdammo ad alcun risultato! Ma, consultando il sito del municipio di Sestu, abbiamo appreso quanto scriva Franco Secci, storico, che così si esprime: «Poco a valle dell'abitato di Sestu, anzi più precisamente ai limiti di questo, sulla destra il Cannas riceve il contributo del Rio di Sestu e da qui prosegue con alveo appena inciso verso lo Stagno di Santa Gilla, assumendo prima il nome di Rio Cannedu e dopo di Rio Matzeu».
Non siamo restii a credere, modificando la nostra primitiva descrizione della spedizione di Mazeus, che la tremenda sconfitta subita dal generale cartaginese verso il 531 a.C. ad opera dei Sardiani, abbia avuto nella seconda parte (di quella che dovette essere una guerra lampo) una iniziale, se pur breve fase, in cui l’esercito cartaginese sembrò prendere il sopravvento, creando tremenda distruzione nell’area sistemata nei paraggi dell'odierna Sestu. La disgrazia patita dovette essere sì grande al punto che l’avvenimento si infisse nella tradizione, la quale trasferì al piccolo rio il nome del generale cartaginese che dovette lasciare un disastro simile a quelli che il crudele rio consumava con periodicità quasi scientifica.
Nessuna sorpresa quella sera dell’autunno 1946 quando cominciò a scorrere sulla città una fiumana d’aria, e brividi e guizzi e serpi di fuoco giocavano nel cielo nero. È che già da alcune ore si sapeva dal bollettino meteorologico che sul Mediterraneo svolazzava una legione di spiriti maligni dai paesi gelati.
Passanti rincasavano frettolosi e rievocavano con frasi un po’ convenzionali notti tragiche dell’ultima guerra. Da alcune finestre piovevano parole come: festa pirotecnica, razzi, petardi e girandole. Altri, forse proprietari di terre, affrettavano il passo parlando allegramente della pioggia che ci voleva dopo quasi due anni di sete.
Poco dopo un vasto soffio quasi sulfureo spense le luci: la città disparve: non ne restarono che gridi di donne per lumi e candele. Ma questi gridi morirono subito perché già gli spiriti neri svolazzavano ai vetri, carri di tuoni rotolavano in discesa, folgori guizzavano, il vento faceva il lupo. Ed ecco in un punto solo una solenne quiete, una calma immensa, un’attesa di portento. La quale fu rotta d’un tratto dalla deflagrazione orrenda di un enorme ordigno. Senza quasi intervallo seguì un rovescio liquido: le nubi si erano lasciate andare sui tetti e sulle strade, e all’istante acque entrarono in tumulto cercando alla cieca discese, salite, cantine.
Gridarono allora le prime trombe. E il vento con un’istantaneità che escludeva una semplice coincidenza evase dalla città, si diede alla campagna e in poco fu distante. La bufera diede segno di passare. Acque numerose fuggivano ancora, ma già la pioggia cadeva come piace ai contadini. Si sentiva un rimestio come di gente che esca dai nascondigli, quando tra esclamazioni di festa ritornò la luce alle case e alle vie, ritornarono i prodi pompieri alle caserme: e la gente ebbe quasi voglia di baldoria, ma era troppo tardi, perché non se ne andassero a dormire. Alle prime luci dell’alba la città si risvegliò di soprassalto: strilloni gridavano: nubifragio, villaggi e campi distrutti, morti e feriti, bambini scomparsi. Di tanti delitti veniva incolpato un piccolo fiume. Uno scherzo di fiume, ma che fiume, un torrente, un rio. Il riu Matzeu. Un vermiciattolo, che solo le mappe registrano per troppo scrupolo. Lo chiamavano omicida, e più volte recidivo. Popolane lo maledicevano anche. Una notte di furia, di febbre criminale, si sentiva dire, lo assale ogni cinquanta anni. Cinquant’anni fa all’incirca, infatti, essendosi aperte le cateratte del cielo quel piccolo rio delirò, uscì dal suo letto, dilagò nei campi, aggredì i villaggi, salì fin sui tetti delle case di fango, le schiacciò e le travolse, poi con la sua preda di mattoni crudi, masserizie, provviste, alberi e bambini si riversò in uno stagno d’acque putride e dense. Parole avverse furono gridate e scritte contro i potenti. I potenti visitarono i luoghi, elargirono soccorsi caritatevoli, promisero briglie e argini, e case forti: ma poi riapparve qualche squarcio d’azzurro, poi si affacciò, come dopo l’antico diluvio, l’arcobaleno: le acque si ritirarono, vennero ricuperati e seppelliti i morti, quelli soltanto che non erano finiti nello stagno, la vita s’impaludò un’altra volta, i potenti si perdettero in disegni e guerre, il piccolo rio e le case d’argilla furono dimenticati. Se non è pura invenzione, gli anziani dei villaggi fecero al piccolo rio un incantesimo, il quale però, - hanno del resto una loro scadenza gli stessi sieri moderni - sarebbe stato valido per cinquant’anni, ed era quindi da rinnovarsi a tempo opportuno. Pare che gli anziani abbiano commesso l’errore di non rinnovarlo. Ma è un errore, è un’imprudenza? O non piuttosto amnesia? Amnesia fatale, si direbbe: posto che questi risvegli criminali del piccolo rio si ripetano da secoli, di cinquanta in cinquanta anni. E di cinquanta in cinquant’anni anche i potenti fatalmente si risvegliano e promettono briglie e argini e case forti, e poi viene l’arcobaleno ed essi si perdono in disegni e guerre.
Le case d’argilla sono risorte. Sono d’argilla, come l’anno scorso.
Quella mattina d’autunno sembra ieri.
Molti erano i morti, e quasi tutti bambini.
Dalle alture e dagli alberi sui quali aveva passato la notte, gente scendeva e affondava fino al ginocchio nel fango. Una donna era ritta nel pantano, statua d’argilla, con un bambino d’argilla stretto al seno. Si cercavano i morti. Una bambina avvolta in una coperta fradicia fumava addormentata fra le braccia d’un uomo che cercava con gli occhi la casa scomparsa. Una vecchia non faceva che ripetere: sa domu, sa domu. Si cercavano i morti. Una locomotiva manovrava in quelle vicinanze incapace di ritornare in città. Uno non cessava di gridare da un tetto, gridava un nome, nessuno gli rispondeva. Una botte affiorava dal fango, e una cassapanca , e una culla, e pentole, e attrezzi di campagna. Buoi e cavalli se ne andavano lenti e soli in esilio. Camion d’indumenti e di viveri, alti personaggi e fotografi e medici e soldati e lettighe erano alle prode del pantano. Si cercavano i morti. Di tanto in tanto il sole si affacciava tra le nuvole, le nuvole mostravano di viaggiare verso le terre alle quali erano diretti buoi e cavalli. Finita la ricerca di morti. Quelli che mancavano erano di certo in fondo allo stagno. I corpi vestiti di fango venivano chiusi nelle bare. Tutti quei morti avevano una storia uguale di patimenti e miseria. Quel loro sonno dava una tristezza forte, ma non penosa: forse l’addolciva il pensiero che essi erano ormai fuori pericolo di essere traditi dalla natura e dai potenti.Quella mattina d’autunno sembra ieri.
Molti erano i morti, e quasi tutti bambini.
Chi salverebbe i superstiti? I morti furono seppelliti. Ora le nuvole finivano di dileguare, il sole era alto, la terra dava qualche segno di asciugarsi. Già i superstiti guardavano con occhio asciutto ed esclusivo i mattoni sparsi, si preparavano a disputarseli per tirar su un’altra volta col fango le loro capanne. La città forte era sull’altura, a pochi passi da quella cintura feudale di villaggi fragili e malati. Ecco sono passate le ore, passati i giorni, e i mesi; è arrivata la primavera, la terra che fu lavata e derubata dei semi non darà molti frutti, non si vedono ombre d’alberi. A quel tempo, si pensava, chi sa, sull’area delle case travolte non vedremo altre case di fango. Oggi quasi temiamo che le donne vadano in riva allo stagno per cantare i morti che dormono nel fondo. Andiamo, andiamo. Fra altri cinquant’anni, se i potenti non provvederanno e forse anche prima se gli anziani non penseranno a rinnovare l’incantesimo, il piccolo rio si risveglierà demente, delirerà nella notte, uscirà dal suo alveo, travolgerà un’altra volta queste case d’argilla, travolgerà nello stagno altri bambini.
E la città alta, di pietra, con le sue torri che resistono ai venti, sarà risvegliata di soprassalto, come quella mattina di autunno, dagli strilloni.
di Bobbore Cambosu da Orotteddi
pubblicato sulla rivista: Il Politecnico, nel novembre 1947
Nota:
Di questo resoconto dell’Orotellese Cambosu, avevamo apprezzato da tempo l’aspetto poetico.
Ma, fu il nome di questo famigerato Riu Matzeu che sconvolse i nostri sonni.
Infatti, quel personaggio storico che ci proviene da Pompeo Trogo e Giustino, che tutti gli storici si prodigano a chiamare Malco, noi (e pochi altri) appellammo Mazeus perché quello che ritenemmo il più fededegno manoscritto a noi arrivato, così lo definiva. Orbene, appena leggemmo il poetico pezzo del Cambosu ci precipitammo a consultare le tante carte geografiche della Sardegna in nostro possesso per scoprire ove fosse sistemato il criminale Riu Mazeus (così ci piace qui nomarlo). Con nostro grande rammarico non approdammo ad alcun risultato! Ma, consultando il sito del municipio di Sestu, abbiamo appreso quanto scriva Franco Secci, storico, che così si esprime: «Poco a valle dell'abitato di Sestu, anzi più precisamente ai limiti di questo, sulla destra il Cannas riceve il contributo del Rio di Sestu e da qui prosegue con alveo appena inciso verso lo Stagno di Santa Gilla, assumendo prima il nome di Rio Cannedu e dopo di Rio Matzeu».
Non siamo restii a credere, modificando la nostra primitiva descrizione della spedizione di Mazeus, che la tremenda sconfitta subita dal generale cartaginese verso il 531 a.C. ad opera dei Sardiani, abbia avuto nella seconda parte (di quella che dovette essere una guerra lampo) una iniziale, se pur breve fase, in cui l’esercito cartaginese sembrò prendere il sopravvento, creando tremenda distruzione nell’area sistemata nei paraggi dell'odierna Sestu. La disgrazia patita dovette essere sì grande al punto che l’avvenimento si infisse nella tradizione, la quale trasferì al piccolo rio il nome del generale cartaginese che dovette lasciare un disastro simile a quelli che il crudele rio consumava con periodicità quasi scientifica.