la dea di Sardara
la premessa
La interpretazione dei vestigi del lontanissimo passato, è materia che, forse, interessa esclusivamente gli specialisti, che a tal uopo dedicano la loro professionalità nei vari campi di ricerca. Ci riferiamo naturalmente ai vestigi linguistici, a quelli letterari ed a quelli materiali in senso lato. I primi troviamo in linea di massima marcati nella tradizione orale, se molto vetusti, oppure su supporti materiali, se più vicini a noi. I secondi ci vengono restituiti unicamente su supporti materiali quali pietra, osso, ceramica (ma anche legno, papiro, pergamena, carta, per tempi più recenti). Quelli materiali infine, rappresentano proprio il mezzo di trasporto, sul quale hanno viaggiato, per centinaia di millenni, per decine di millenni, millenni o soltanto per alcuni secoli, le manifestazioni intellettuali (anche quelle che si irrigidiscono in un esito materiale, hanno il loro incipit nella disposizione creativa della mente) dell’homo e dell’uomo. Ad essi vanno naturalmente aggiunti quegli insiemi architettati di elementi in pietra (per lo più) che definiamo edifici a vario titolo, sotterranei ed aerei.
La interpretazione dei vestigi del lontanissimo passato, è materia che, forse, interessa esclusivamente gli specialisti, che a tal uopo dedicano la loro professionalità nei vari campi di ricerca. Ci riferiamo naturalmente ai vestigi linguistici, a quelli letterari ed a quelli materiali in senso lato. I primi troviamo in linea di massima marcati nella tradizione orale, se molto vetusti, oppure su supporti materiali, se più vicini a noi. I secondi ci vengono restituiti unicamente su supporti materiali quali pietra, osso, ceramica (ma anche legno, papiro, pergamena, carta, per tempi più recenti). Quelli materiali infine, rappresentano proprio il mezzo di trasporto, sul quale hanno viaggiato, per centinaia di millenni, per decine di millenni, millenni o soltanto per alcuni secoli, le manifestazioni intellettuali (anche quelle che si irrigidiscono in un esito materiale, hanno il loro incipit nella disposizione creativa della mente) dell’homo e dell’uomo. Ad essi vanno naturalmente aggiunti quegli insiemi architettati di elementi in pietra (per lo più) che definiamo edifici a vario titolo, sotterranei ed aerei.
Come si vede, proprio l’ultima catalogata, il mezzo di trasporto, è la categoria attraverso la quale si trasferisce buona parte della ricerca sul nostro passato.
Questa ultima, può partire da qualsiasi dove, anche dalla nuda aspirazione a dare un contorno storico ed una collocazione culturale, ad un oggetto, ormai intoccabile, che trovasi al di là della vetrinetta del museo. Ora, il rinchiudere un reperto in un museo, rappresenta da un lato, una terribile violenza al desiderio di studio e approfondimento di tutti gli scienziati e ricercatori che ambiscano, con le loro specifiche conoscenze, andare oltre le determinazioni del singolo, ma dall’altro, esprime una illiberale, presuntuosa dichiarazione di raggiungimento del massimo sapere, estraibile dall’oggetto.
Sarebbe invece opportuno, che il patrimonio segregato nei musei, che è proprietà d’ogni singolo individuo desideroso di sperimentare il confine del suo personale scibile, venisse messo nella disponibilità di qualunque ricercatore di qualsiasi disciplina, che desiderasse approfondire una fra le mille tematiche correlate con l’oggetto. E, sarebbe opportuno si facesse ciò in modo continuativo, perché né il singolo studioso né la singola categoria di studiosi di una certa epoca, potrà mai essere in grado di porre la parola fine alla conoscenza su uno qualsiasi dei miliardi di oggetti imprigionati nelle orrende celle dei musei, perché ogni uomo sia del presente che del futuro, potrà certo mettere a frutto proprie potenzialità intellettive e nuove pratiche tecnologie, per andare oltre il limite imposto dal singolo momento.
il principio
La disperata necessità di dare un senso a tutti gli elementi, che a livello di pensiero e nella pratica del loro continuo manifestarsi, corroboravano, ma anche atterrivano, gli spazi coperti dal giorno, ed ancor più, quelli carichi di domande del percorso notturno, portarono l’uomo dell’antico Paleolitico (che noi chiamiamo con sufficiente chiarezza semantica, homo sapiens) ad iniziare la costruzione di quella architettura cognitiva che doveva elaborare e cementare le certezze della sua vita interiore.
Concepì, sulla base dei pratici elementi disponibili e collegando fra loro i fenomeni consequenziali che si alternavano nel ciclico evolversi delle forze naturali, la presenza invisibile di una potente entità che tutto governava. Anzi, col procedere delle decine di millenni, arrivò a dividere in due la competenza di tale Autorità, una avente il dominio della terra, la seconda egemone su tutto ciò che le era al di sopra: il cielo. E, siccome gli era molto più difficile dare una connotazione familiare a quest’ultimo elemento, sì sfuggente e variabile nello stesso volgere di un solo attimo, decise di classificare su un gradino più alto questa impenetrabile entità, il Cielo, rispetto a quella che prese il livello inferiore, la Terra, la quale risultava quotidianamente più comprensibile al suo sentire, almeno a causa della sua costante tangibilità.
Questa sì antica suddivisione spirituale e per luoghi, del potere supremo, diede luogo nel volgersi delle decine di millenni, nella continua osservazione naturale dei fenomeni che emanavano da cielo e terra, ad una struttura religiosa primitiva, basata sulla divaricazione Dio-Cielo e Dea-Terra. Tale immagine dovette però manifestare col tempo, quei limiti di comprensività che sono ad essa congeniali. Pertanto, nella scelta di un modello che rappresentasse una più forte immediatezza, riguardo la comprensione del dualismo cielo/terra, venne aggiunto un terzo elemento alle due coppie dell’antica struttura, la quale venne di poi identificata come Dio-Cielo-Uomo e Dea-Terra-Donna: tutto ciò che determinavasi dal cielo, era anche visto come prepotente desiderio del Dio-Uomo, mentre, quanto si verificava entro la terra, era considerata lungimirante e saggia manifestazione della Dea-Donna.
Le sfere di competenza, fra i due insiemi dello stesso fenomeno religioso così delineato, erano quindi ben ripartite, senza possibilità di confusione nelle rispettive abilità. Ma, il raggiungimento della ultima immagine, dovette tuttavia innescare degli attriti, nella manifestazione umana del pensatore paleolitico. Esso, ovvero essi (sia l’uomo che la donna) avevano la tendenza ad identificarsi con l’Uomo divino e con la Donna divina. Esaltando (nel continuo vivere le asperità terrene) le proprie specifiche potenzialità d’origine divina: la forza fisica, l’abilità nella caccia, il possesso del seme riproduttivo per l’uno, il governo dell’ambiente familiare, la indispensabile attitudine alla procreazione della stessa comunità, l’allattamento per l’altra, tendevano trasferire il conflitto in ambito soprannaturale, mettendo in risalto la predominanza di un insieme sull’altro. Si venne a creare una alternativa nella sfera divina, nella scelta di chi avesse il comando assoluto; ma poteva tale divergenza rimanere allogata in ambito divino?
Le elucubrazioni che seguirono nei millenni, dovettero dar luogo in seno alle varie comunità, a profondi (e forse acerrimi) contrasti, i quali (se pur con qualche dubbio), seguivano di pari passo i periodi climatici. Sembra possibile infatti, che il dualismo Donna-Uomo si fosse trasferito dal livello trascendente a quello meramente pratico del fluire perenne di tutte le cose, essendo attori in tale diatriba gli stessi uomo e donna del Paleolitico nell’emisfero settentrionale che, proprio dal duro vivere del più crudo periodo glaciale, traevano auspici per una accettazione di comando dell’Uomo, mentre nei più miti periodi interglaciali, erano predominanti gli attributi femminili, suggerendo una glorificazione della Donna. Il passo, verso la definizione del comando sulla terra, nell’ambito delle popolazioni del Paleolitico medio, era compiuto.
Il ritrovamento di un centinaio di riproduzioni artistiche (statuette) che rappresentano la donna, per lo più nelle sue floride attribuzioni generative, a partire dall’inizio del XXX millennio, sembrano confermare la presenza, da prima di quella data, d’un predominio oggettivo della donna sull’uomo. Infatti, a un così esorbitante numero di figurazioni muliebri, che interpretiamo come strumento propagandistico femminile, è di povero riscontro il ritrovamento di poche simili unità riferibili all’uomo. Tale dominanza, dovette esser lunga almeno ventimila anni, se è vero che essa troviamo ancora rilevabile dalla lettura dei concetti espressi nel santuario plurimo di Çatalhöyük, parendo essa entrare in discussione, soltanto sopra i gorghi del Danubio, a Lepenski Vir.
il merito
Trattiamo ora specificamente l’argomento il cui contenuto abbiamo racchiuso nel titolo.
Entriamo subito nel vivo, col dire che il bucranio simboleggia la capacità inseminatrice dell’uomo. In effetti, il bucranio, nel suo significato apparente è la rappresentazione della testa del bue con i suoi principali attributi, ovvero del toro. Ma, il toro è animale riproduttivo per eccellenza, al quale si ricorre per la fondamentale, quotidiana necessità del latte per l’alimentazione. Anche la testa dell’ariete ricorre, in quel novero di espedienti simbolici, con la stessa frequenza, perché anch’esso è mezzo indispensabile per la quotidiana razione di latte per l’alimentazione. Pertanto, senza l’assolutamente necessario contributo di questi due preziosi animali, tutte le umanità di tutte le epoche, forse, non sarebbero sopravvissute o almeno, non interamente. La stessa umanità dei nostri giorni non ne può fare a meno. Quindi l’ariete ed il toro rappresentano, soprattutto, forza soprannaturale di generazione e alimentazione; soltanto poi e per gli effetti indispensabili di quella alimentazione “divina”, essi risultano essere patrocinatori della vita. Ma, uno degli attributi principali della Dea e della donna (forse fin dagli inizi del Paleolitico superiore) non è proprio quello di madre nutrice, rappresentata con i seni traboccanti del prezioso nutrimento?. E, quale migliore patronato può essere ad esse accostato, se non il potentissimo toro (od ariete), per esaltare in massimo grado quella loro funzione? Pur tuttavia, il bucranio, cioè la testa del toro, è proprio il simbolo che rappresenta la funzione fecondatrice dell’uomo, certo idealmente esaltata dall’accostamento con la bestia.
Tale segno, è l’accorgimento artistico che ricorda l’unione della donna (sovente idealizzata come Dea) con il suo sodale uomo, che dà la spinta alla formidabile sequenza dei fenomeni naturali che portano alla creazione di una umana comunità: deposizione del seme nell’utero, gestazione, parto, allattamento, crescita. L’artista che si esibì in corrispondenza del pozzo e della tomba, prese a prestito il profondo significato del simbolo bucranio, quello potentemente generativo, per mettere in evidenza la necessaria comunione fra l’uomo e l’utero-pozzo o l’utero-tomba. E non aveva più chiaro modo per farlo: nella gloriosa esaltazione della proprietà generatrice della Dea, ma anche della donna, l’unico simbolo, all’altezza del compito, era quello che rappresentava la macchina inseminatrice per eccellenza, il toro (o l’ariete). In alcuni casi la scelta cadeva sull’ariete, ma più comunemente sul toro, forse per un suo più antico addomesticamento. Aggiungiamo che può sembrare naturale credere ad uno strettissimo legame segnico fra bucranio e utero, mentre, ad un più attento esame, la “identificazione” simbologica (messa a punto nel passato) fra i due elementi figurativi, ci lascia certo insoddisfatti. Siamo però consapevoli (come espresso altrove) che una ardita rappresentazione del segno bucranio, come talvolta si legge sull’oggetto definito “menhir”, racchiuda in sé l’utero della dea-donna, con la vita che dal suo interno si fa strada verso la luce, oltrepassando l’apertura della vulva.
* excursus - Naturalmente, noi nulla sappiamo circa la sede in cui si materializzò la prima volta il lungo percorso di questa spirituale esperienza, pur se l’altorilievo rupestre ove è scolpita la cosiddetta Venere dal corno, sembri esservi vicino, anche se non molto, stante la sofisticata alchimia aritmetica posta in essere, nell’indicare il tempo di gestazione attraverso il simbolo dell’abbondanza. (Per questo reperto, riguardo l’insuperabile livello artistico e figurativo in sé, ottenuto dal paleolitico Leonardo, è notevole la mancanza d’una definizione facciale della Venere, così restituitaci non per imperizia nella minuta manualità, ma proprio perché la universalità del viso di una dea, non può essere fossilizzata nella fattezza di un solo istante, ma deve trasmettere quell’alea misteriosa che in certa misura volle imprimere anche l’artista di Vinci, allo sguardo misterioso ed enigmatico della Gioconda). Ci è però ignoto, se una espressione artistica di tal fatta fosse la prima, mentre siamo certi non fosse affatto l’unica per quei tempi. Infatti, il cammino evolutivo di un simile concetto e la sua definitiva materializzazione, possono aver richiesto il lungo evolversi di millenni e pertanto la numerosa partecipazione di tantissime culture. Ovvero, la realizzazione dell’antico disegno può essere avvenuta su vari fronti di ricerca (leggasi culture), in ambiti geografici tra cui ricordiamo Anatolia, Danubio, Sardegna, Giappone, in tempi, fra loro, più o meno vicini, per cui l’essenza emblematica del bucranio è stata uno degli strumenti d’espressione, di quelle comunità particolarmente tese alla ricerca degli indissolubili legami fra tre Enti fondamentali: il naturale, l’umano, il divino. *
Nell’arco dei millenni, la raffigurazione del bucranio, ha preso la mano degli artisti e quelli antico neolitici lo hanno fatto nascere in contesti nei quali quella tradita grafia si integrava alla perfezione. Esempio caratteristico, di tale impegno trascendente è, come detto, l’interno di tombe e pozzi, in cui quei simboli avevano il compito sovrannaturale di favorire la rigenerazione nell’umidità del limo e nella intimità dell’acqua. Ma, i segni generativi, entrarono a far parte delle compiute espressioni degli artisti del sacro, nel momento in cui essi sentirono l’esigenza di esprimere la loro arte rappresentando la stessa Dea che sovrintendeva alla generazione dell’essere e alla rinascita della natura. Riguardo al primo dei raffronti che ci sentiamo di intessere, proponiamo le due figure che appaiono, secondo l’ottica messa a punto testé, straordinariamente identiche.
La prima, è un menhir del III millennio a.C. (Mas Caplier, al sud della Francia) che rappresenta una deità femminile mentre abbraccia un bucranio. La seconda, è un frammento di vaso piriforme con rappresentazione schematica di figura umana, la qualeper alcuni regge un bastone forcuto, secondo altri stringe fra le braccia un oggetto terminante a forcella (Sardara, Sardegna centro meridionale), che rappresenta ancora una dea che abbraccia un bucranio. La percezione del bucranio è infatti evidente, una volta entrati nel preciso contesto simbolico, anche nella seconda figura (nota finora come il frammento di Sardara), nella quale si ammira la dea che abbraccia null’altro se non un bucranio. Si badi anzi, come lo stesso elemento figurativo, il bucranio, sia inserito per ben due volte in questa partitura grafica, la seconda (se pur capovolto) anche alla base (così come ci viene restituita dal frammento) della rappresentazione della dea. Vediamo pertanto, come in quella che definiremo d’ora in avanti la “dea di Sardara”, vi è anche una stupefacente applicazione di quell’effetto del doppio (due linee, due triangoli, due losanghe, ecc.) tendente, nelle manifestazioni artistico-religiose del Neolitico antico, ad amplificare il significato racchiuso in tutto il portato del segno singolo. La dea di Sardara deve intendersi come la narrazione più estensiva del divino che genera la vita, non solo per le manifestazioni simboliche amplificate (ve ne sono altre ancora da interpretare) con cui l’artista e le rigide regole cultuali attinenti alla antichissima tradizione, hanno imposto alla materia, ma soprattutto perché la dea di Sardara, al contrario della dea di Mas Caplier, soggiorna in un pozzo, che solo in virtù della sua presenza ascende al sacro. Il pozzo, con il suo elemento liquido è (forse più che la tomba sotterranea) l’esaltante simbolo della nuova vita che si genera nell’umido del ventre divino e materno. La stupefacente tessitura simbolica su cui insiste la dea di Sardara, si arguisce essere sì complessa che, noi, superficiali viventi il III millennio d.C., riusciamo solo lontanissimamente a penetrarne significato e nobiltà liturgica. Si guardino ad esempio, i quattro cerchi concentrici con punto centrale, posti esattamente al di sopra del bucranio rovesciato, appoggiato al divino ventre. Ebbene, pur nel molteplice significato che assumono, nelle circostanze più varie, i cerchi concentrici di matrice antico-neolitica, ci pare coercitivo avocarne due per il simbolo sul bucranio capovolto della dea di Sardara: energia vitale divina, che si manifesta, luna dopo luna, con l’ingrossamento del ventre della madre-dea. La stessa, identica impressione, materiale e spirituale a un tempo, troviamo a Çatalhöyük, il sito anatolico del Neolitico antico, che in un santuario datato a circa la metà del IX millennio da oggi, presenta un rilievo che venne definito dal Mellaart “la dea incinta”, il quale, pur esso, ci fornisce il racconto eterno e prepotente dell’appropinquarsi alla vita del nascituro, attraverso il testo scritto nei quattro cerchi concentrici con punto centrale, che ci ammoniscono dal corpo della donna-dea.
Ma, la potenza espressiva della dea di Sardara, nella sua funzione di custode del germoglio di vita nel suo divino ventre, viene declinata manifestamente nella esternazione dei cicli lunari necessari alla gestazione e nascita della nuova vita. Infatti, sulla parte inferiore del primo bucranio abbracciato dalla dea, è ben visibile il racconto sui cicli lunari, in numero di dieci. Non soltanto questo, ci dona l’antica arte neolitica, ma relativamente alla stessa enunciazione dei cicli lunari, ci esalta con l’effetto del doppio: infatti, lungh’esso il lato adiacente a quello in cui sono sistemate le prime dieci tacche, ve ne sono altre dieci che fanno bella mostra di sé. La scoperta di questa seconda lista di cicli, dobbiamo alla osservazione dal vivo del reperto, infatti solo ora, chi guarda la solita riproduzione fotografica della dea di Sardara, riesce ad intuire la presenza della seconda lista di cicli, appena al di là della prima.
V’è alfine da aggiungere, come la pertinenza del frammento di Sardara all’Età del Ferro, a causa della presenza di “motivi geometrici” (sic!), ci lasci quanto mai dubbiosi circa il raggiungimento dell’obiettivo di una assegnazione temporale all’esercizio artistico e segnico. Per conto nostro, diciamo che la dea di Sardara, dopo aver varcato i confini di una esperienza umana lunga moltissimi millenni, ci proviene da ultimo, dal pozzo sacro di sant’Anastasia.
la storia
Il Taramelli (che scrive nel 1918) nel racconto della nostra dea di Sardara, paragona l’atteggiamento della: «figurina che stringe fra le braccia al petto, un grosso bastone […] terminato da due corna lunate o da una forcella sporgente oltre la spalla sinistra, […] con lo strano bronzetto edito dal Lamarmora».
Il bronzetto cui si riferisce il Taramelli, fu così definito dal de La Marmora:
«Figura umana imberbe con una specie di cappuccio […] Porta nella mano un attributo forcuto, o se si vuole, terminato in mezzaluna […]», ed è la prima della serie di tre, che quì appresso si trovano orizzontalmente allineate. La seconda figura è quella riportata dall’archeologo che, circa ottanta anni appresso, descrive in modo sì criptico, la parte che ci riguarda del bronzetto pubblicato dal de La Marmora:
«Le due braccia stringono un oggetto che venne completato da un preteso restauro come una forcella semilunare, poi levata».
Bene, andiamo ad interpretare la dichiarazione che nella circostanza, ci fornisce l’archeologo.
In modo immediato, risulta evidente un primo messaggio, dal quale si comprende come la figurina di cui egli discetta sia proprio quella descritta dal Generale, in quanto essa è rappresentata mentre «le due braccia (la mano per il de La Marmora) stringono un oggetto con una forcella semilunare».
V’è un terzo messaggio (dopo renderemo conto del secondo) contenuto nella descrizione del Taramelli: “ci fu in illo tempore un preteso restauro che apportò alla figura la forcella semilunata”. Orbene, sembra fuor di dubbio che, circa ottanta anni prima delle elucubrazioni del Taramelli, il bronzetto avesse un attributo forcuto o a mezzaluna.
Pertanto, in un qualche momento, a partire dalla edizione del secondo volume del Voyage en Sardaigne, sulle antichità (1840), fino al momento in cui parla il Taramelli (la qual cosa fa essendo direttore del Museo di Cagliari), la statuina, posseduta (pare) sempre dallo stesso museo, dovette rimaner orba della sua mezzaluna.
* excursus - Sembrerebbe facile arguire circa le vicende cui andò incontro il bronzetto in questione, addebitandone la causa allo scandalo sui falsi idoli sardo-fenici, di cui rimase vittima pure il de La Marmora e portò dei falsi bronzetti (anche) nel museo cagliaritano. Resta il fatto che, entrato nel merito della questione, il Pais, in una Memoria all’Accademia dei Lincei del 1881, denunciò (e fu l’unico a farlo in modo onesto) l’inganno subìto dalla comunità scientifica e dal museo. In tale circostanza, la figurina bronzea della quale qui si discute (la n° 124 dell’Atlante del de La Marmora), fu classificata dal Pais come “sospetta” (quindi non nell’elenco dei falsi), però aggiungendo in nota che, gli idoli elencati dal Generale: «Io li giudico non da ispezione oculare, ma dai disegni; ne viene quindi che questa mia distinzione non può essere esatta, e che per es. varî di quelli che io credo sospetti, siano definitivamente falsi». Divenuto egli stesso direttore del Museo di Cagliari, provvide nel 1883 ad “espellere dalle collezioni gli «idoli fenici» doppiamente «falsi e bugiardi»”. Non si può che dedurre che il Sardo-Piemontese, pur armato del più severo cipiglio teso a mondare il museo delle falsità che tanto offendevano la dirittura morale della sua essenza di scienziato, dopo un severissimo esame cui sottopose anche il nostro il reperto, certo con l’aiuto dei più autorevoli conoscitori della materia, decise di certificare la statuina come facente parte degli «idoli genuini» avente, pertanto, tutti i titoli per rimanere esposta al museo come testimone dell’antica arte metallurgica sarda.
Il secondo messaggio (eccolo in arrivo) del Taramelli ci riferisce che probabilmente, dopo il 1885 (anno in cui il Pais lasciò il Museo) e prima del 1903 (anno in cui egli stesso ne assunse la direzione) poté accadere che qualche troppo solerte direttore, si fosse convinto che i dubbi del Pais, sulla totale autenticità del reperto, fossero sollevati proprio dalla presenza della estremità corniforme della figurina bronzea. Pertanto egli potrebbe aver provveduto alla sua rimozione.
Il quarto messaggio ci racconta che, sempre nel lasso di tempo formato da quei diciotto anni, avvenne quel preteso restauro cui fa cenno il Taramelli: ciò significa che altro altissimo funzionario del museo, propendente a restituire autenticità alla primeva completezza della statuina, fece ricomporre il significato artistico originale.
Il quinto messaggio ci rende edotti circa l’ultima atrocità inferta alla incolpevole rappresentazione simbolica e artistica, dalla violenza dell’uomo di cultura, che provvide negli stessi diciotto anni, a privare, di brutto nuovo, il bronzetto del suo attributo forse, più significativo.
Da ultimo, il sesto messaggio: il Taramelli credette autentica la figurina bronzea completa del suo attributo corniforme. Infatti, la collegò immediatamente all’immagine della nostra dea di Sardara, affermando: «ho ricordato questa curiosa figurina in bronzo per l’analogia della postura delle braccia, con questa altra figura in rilievo del vaso di Sardara; ma l’interesse maggiore è, secondo me, fornito dall’oggetto forcuto o lunato che questa figurina porta appoggiato al petto e che trattandosi di un vaso votivo, rinvenuto in un pozzo votivo, ci conduce a pensare ad un oggetto connesso al rituale che si veniva a compiere nel tempio». *
Crediamo sia chiaro anche al lettore, quanto sia evidente e necessario attribuire anche al bronzetto n° 124 del de La Marmora, la stessa descrizione attribuita al menhir di Mas Caplier (dalla Gimbutas) ed al frammento di Sardara (da noi medesimi): rappresentazione di una deità femminile che abbraccia un bucranio.
Ma la simbologia rigenerativa, che sprigiona dall’insieme bucranio e pozzo-utero, ricorre altre due volte (almeno) fra i reperti del pozzo sacro di Sardara.
Il Taramelli, stante la sua statura di ricercatore che basa sue elucubrazioni su ciò che constata personalmente, intesse il seguente, per noi meraviglioso, collegamento con la dea che abbraccia il bucranio, ormai la dea di Sardara: «ricordo anzitutto che anche in due vasi dati dal pozzo, e cioè sulla parete di una brocchetta a collo obliquo, e sul collo di un grosso boccale si osserva la figura in rilievo di un oggetto a foggia di bastone forcuto, con le punte rivolte in alto, che ricorda l’oggetto portato dalla predetta figurina».
Ma, forse proprio in virtù della potenza del due, che si ripete e moltiplica, vediamo che in relazione all’altro ricorrente simbolo neolitico, a quattro cerchi concentrici con punto centrale, che vediamo presente sul bucranio inferiore della dea di Sardara, oltre che sul corpo ed a rappresentarne gli occhi (ma con tre cerchi concentrici e punto centrale) vediamo come ad ornamento dello stesso pozzo sacro (come ipotizzato dall’archeologo nella sua ricostruzione della architettura esterna dello stesso tempio) fossero presenti dei cerchi concentrici, la riproduzione dei quali abbiamo proprio in due superstiti frammenti in calcare delle lastre che ornavano l’ingresso. Naturalmente, la reiterazione figurativa di tali attributi, rende evidente il loro reciproco collegamento, ma chiarisce soprattutto l’intrinseco legame degli stessi, proprio con l’elemento simbolico per eccellenza: il pozzo, che contenendoli tutti, diventa quindi sacro.
Questa ultima, può partire da qualsiasi dove, anche dalla nuda aspirazione a dare un contorno storico ed una collocazione culturale, ad un oggetto, ormai intoccabile, che trovasi al di là della vetrinetta del museo. Ora, il rinchiudere un reperto in un museo, rappresenta da un lato, una terribile violenza al desiderio di studio e approfondimento di tutti gli scienziati e ricercatori che ambiscano, con le loro specifiche conoscenze, andare oltre le determinazioni del singolo, ma dall’altro, esprime una illiberale, presuntuosa dichiarazione di raggiungimento del massimo sapere, estraibile dall’oggetto.
Sarebbe invece opportuno, che il patrimonio segregato nei musei, che è proprietà d’ogni singolo individuo desideroso di sperimentare il confine del suo personale scibile, venisse messo nella disponibilità di qualunque ricercatore di qualsiasi disciplina, che desiderasse approfondire una fra le mille tematiche correlate con l’oggetto. E, sarebbe opportuno si facesse ciò in modo continuativo, perché né il singolo studioso né la singola categoria di studiosi di una certa epoca, potrà mai essere in grado di porre la parola fine alla conoscenza su uno qualsiasi dei miliardi di oggetti imprigionati nelle orrende celle dei musei, perché ogni uomo sia del presente che del futuro, potrà certo mettere a frutto proprie potenzialità intellettive e nuove pratiche tecnologie, per andare oltre il limite imposto dal singolo momento.
il principio
La disperata necessità di dare un senso a tutti gli elementi, che a livello di pensiero e nella pratica del loro continuo manifestarsi, corroboravano, ma anche atterrivano, gli spazi coperti dal giorno, ed ancor più, quelli carichi di domande del percorso notturno, portarono l’uomo dell’antico Paleolitico (che noi chiamiamo con sufficiente chiarezza semantica, homo sapiens) ad iniziare la costruzione di quella architettura cognitiva che doveva elaborare e cementare le certezze della sua vita interiore.
Concepì, sulla base dei pratici elementi disponibili e collegando fra loro i fenomeni consequenziali che si alternavano nel ciclico evolversi delle forze naturali, la presenza invisibile di una potente entità che tutto governava. Anzi, col procedere delle decine di millenni, arrivò a dividere in due la competenza di tale Autorità, una avente il dominio della terra, la seconda egemone su tutto ciò che le era al di sopra: il cielo. E, siccome gli era molto più difficile dare una connotazione familiare a quest’ultimo elemento, sì sfuggente e variabile nello stesso volgere di un solo attimo, decise di classificare su un gradino più alto questa impenetrabile entità, il Cielo, rispetto a quella che prese il livello inferiore, la Terra, la quale risultava quotidianamente più comprensibile al suo sentire, almeno a causa della sua costante tangibilità.
Questa sì antica suddivisione spirituale e per luoghi, del potere supremo, diede luogo nel volgersi delle decine di millenni, nella continua osservazione naturale dei fenomeni che emanavano da cielo e terra, ad una struttura religiosa primitiva, basata sulla divaricazione Dio-Cielo e Dea-Terra. Tale immagine dovette però manifestare col tempo, quei limiti di comprensività che sono ad essa congeniali. Pertanto, nella scelta di un modello che rappresentasse una più forte immediatezza, riguardo la comprensione del dualismo cielo/terra, venne aggiunto un terzo elemento alle due coppie dell’antica struttura, la quale venne di poi identificata come Dio-Cielo-Uomo e Dea-Terra-Donna: tutto ciò che determinavasi dal cielo, era anche visto come prepotente desiderio del Dio-Uomo, mentre, quanto si verificava entro la terra, era considerata lungimirante e saggia manifestazione della Dea-Donna.
Le sfere di competenza, fra i due insiemi dello stesso fenomeno religioso così delineato, erano quindi ben ripartite, senza possibilità di confusione nelle rispettive abilità. Ma, il raggiungimento della ultima immagine, dovette tuttavia innescare degli attriti, nella manifestazione umana del pensatore paleolitico. Esso, ovvero essi (sia l’uomo che la donna) avevano la tendenza ad identificarsi con l’Uomo divino e con la Donna divina. Esaltando (nel continuo vivere le asperità terrene) le proprie specifiche potenzialità d’origine divina: la forza fisica, l’abilità nella caccia, il possesso del seme riproduttivo per l’uno, il governo dell’ambiente familiare, la indispensabile attitudine alla procreazione della stessa comunità, l’allattamento per l’altra, tendevano trasferire il conflitto in ambito soprannaturale, mettendo in risalto la predominanza di un insieme sull’altro. Si venne a creare una alternativa nella sfera divina, nella scelta di chi avesse il comando assoluto; ma poteva tale divergenza rimanere allogata in ambito divino?
Le elucubrazioni che seguirono nei millenni, dovettero dar luogo in seno alle varie comunità, a profondi (e forse acerrimi) contrasti, i quali (se pur con qualche dubbio), seguivano di pari passo i periodi climatici. Sembra possibile infatti, che il dualismo Donna-Uomo si fosse trasferito dal livello trascendente a quello meramente pratico del fluire perenne di tutte le cose, essendo attori in tale diatriba gli stessi uomo e donna del Paleolitico nell’emisfero settentrionale che, proprio dal duro vivere del più crudo periodo glaciale, traevano auspici per una accettazione di comando dell’Uomo, mentre nei più miti periodi interglaciali, erano predominanti gli attributi femminili, suggerendo una glorificazione della Donna. Il passo, verso la definizione del comando sulla terra, nell’ambito delle popolazioni del Paleolitico medio, era compiuto.
Il ritrovamento di un centinaio di riproduzioni artistiche (statuette) che rappresentano la donna, per lo più nelle sue floride attribuzioni generative, a partire dall’inizio del XXX millennio, sembrano confermare la presenza, da prima di quella data, d’un predominio oggettivo della donna sull’uomo. Infatti, a un così esorbitante numero di figurazioni muliebri, che interpretiamo come strumento propagandistico femminile, è di povero riscontro il ritrovamento di poche simili unità riferibili all’uomo. Tale dominanza, dovette esser lunga almeno ventimila anni, se è vero che essa troviamo ancora rilevabile dalla lettura dei concetti espressi nel santuario plurimo di Çatalhöyük, parendo essa entrare in discussione, soltanto sopra i gorghi del Danubio, a Lepenski Vir.
il merito
Trattiamo ora specificamente l’argomento il cui contenuto abbiamo racchiuso nel titolo.
Entriamo subito nel vivo, col dire che il bucranio simboleggia la capacità inseminatrice dell’uomo. In effetti, il bucranio, nel suo significato apparente è la rappresentazione della testa del bue con i suoi principali attributi, ovvero del toro. Ma, il toro è animale riproduttivo per eccellenza, al quale si ricorre per la fondamentale, quotidiana necessità del latte per l’alimentazione. Anche la testa dell’ariete ricorre, in quel novero di espedienti simbolici, con la stessa frequenza, perché anch’esso è mezzo indispensabile per la quotidiana razione di latte per l’alimentazione. Pertanto, senza l’assolutamente necessario contributo di questi due preziosi animali, tutte le umanità di tutte le epoche, forse, non sarebbero sopravvissute o almeno, non interamente. La stessa umanità dei nostri giorni non ne può fare a meno. Quindi l’ariete ed il toro rappresentano, soprattutto, forza soprannaturale di generazione e alimentazione; soltanto poi e per gli effetti indispensabili di quella alimentazione “divina”, essi risultano essere patrocinatori della vita. Ma, uno degli attributi principali della Dea e della donna (forse fin dagli inizi del Paleolitico superiore) non è proprio quello di madre nutrice, rappresentata con i seni traboccanti del prezioso nutrimento?. E, quale migliore patronato può essere ad esse accostato, se non il potentissimo toro (od ariete), per esaltare in massimo grado quella loro funzione? Pur tuttavia, il bucranio, cioè la testa del toro, è proprio il simbolo che rappresenta la funzione fecondatrice dell’uomo, certo idealmente esaltata dall’accostamento con la bestia.
Tale segno, è l’accorgimento artistico che ricorda l’unione della donna (sovente idealizzata come Dea) con il suo sodale uomo, che dà la spinta alla formidabile sequenza dei fenomeni naturali che portano alla creazione di una umana comunità: deposizione del seme nell’utero, gestazione, parto, allattamento, crescita. L’artista che si esibì in corrispondenza del pozzo e della tomba, prese a prestito il profondo significato del simbolo bucranio, quello potentemente generativo, per mettere in evidenza la necessaria comunione fra l’uomo e l’utero-pozzo o l’utero-tomba. E non aveva più chiaro modo per farlo: nella gloriosa esaltazione della proprietà generatrice della Dea, ma anche della donna, l’unico simbolo, all’altezza del compito, era quello che rappresentava la macchina inseminatrice per eccellenza, il toro (o l’ariete). In alcuni casi la scelta cadeva sull’ariete, ma più comunemente sul toro, forse per un suo più antico addomesticamento. Aggiungiamo che può sembrare naturale credere ad uno strettissimo legame segnico fra bucranio e utero, mentre, ad un più attento esame, la “identificazione” simbologica (messa a punto nel passato) fra i due elementi figurativi, ci lascia certo insoddisfatti. Siamo però consapevoli (come espresso altrove) che una ardita rappresentazione del segno bucranio, come talvolta si legge sull’oggetto definito “menhir”, racchiuda in sé l’utero della dea-donna, con la vita che dal suo interno si fa strada verso la luce, oltrepassando l’apertura della vulva.
* excursus - Naturalmente, noi nulla sappiamo circa la sede in cui si materializzò la prima volta il lungo percorso di questa spirituale esperienza, pur se l’altorilievo rupestre ove è scolpita la cosiddetta Venere dal corno, sembri esservi vicino, anche se non molto, stante la sofisticata alchimia aritmetica posta in essere, nell’indicare il tempo di gestazione attraverso il simbolo dell’abbondanza. (Per questo reperto, riguardo l’insuperabile livello artistico e figurativo in sé, ottenuto dal paleolitico Leonardo, è notevole la mancanza d’una definizione facciale della Venere, così restituitaci non per imperizia nella minuta manualità, ma proprio perché la universalità del viso di una dea, non può essere fossilizzata nella fattezza di un solo istante, ma deve trasmettere quell’alea misteriosa che in certa misura volle imprimere anche l’artista di Vinci, allo sguardo misterioso ed enigmatico della Gioconda). Ci è però ignoto, se una espressione artistica di tal fatta fosse la prima, mentre siamo certi non fosse affatto l’unica per quei tempi. Infatti, il cammino evolutivo di un simile concetto e la sua definitiva materializzazione, possono aver richiesto il lungo evolversi di millenni e pertanto la numerosa partecipazione di tantissime culture. Ovvero, la realizzazione dell’antico disegno può essere avvenuta su vari fronti di ricerca (leggasi culture), in ambiti geografici tra cui ricordiamo Anatolia, Danubio, Sardegna, Giappone, in tempi, fra loro, più o meno vicini, per cui l’essenza emblematica del bucranio è stata uno degli strumenti d’espressione, di quelle comunità particolarmente tese alla ricerca degli indissolubili legami fra tre Enti fondamentali: il naturale, l’umano, il divino. *
Nell’arco dei millenni, la raffigurazione del bucranio, ha preso la mano degli artisti e quelli antico neolitici lo hanno fatto nascere in contesti nei quali quella tradita grafia si integrava alla perfezione. Esempio caratteristico, di tale impegno trascendente è, come detto, l’interno di tombe e pozzi, in cui quei simboli avevano il compito sovrannaturale di favorire la rigenerazione nell’umidità del limo e nella intimità dell’acqua. Ma, i segni generativi, entrarono a far parte delle compiute espressioni degli artisti del sacro, nel momento in cui essi sentirono l’esigenza di esprimere la loro arte rappresentando la stessa Dea che sovrintendeva alla generazione dell’essere e alla rinascita della natura. Riguardo al primo dei raffronti che ci sentiamo di intessere, proponiamo le due figure che appaiono, secondo l’ottica messa a punto testé, straordinariamente identiche.
la dea di Mas Caplier | la dea di Sardara |
La prima, è un menhir del III millennio a.C. (Mas Caplier, al sud della Francia) che rappresenta una deità femminile mentre abbraccia un bucranio. La seconda, è un frammento di vaso piriforme con rappresentazione schematica di figura umana, la qualeper alcuni regge un bastone forcuto, secondo altri stringe fra le braccia un oggetto terminante a forcella (Sardara, Sardegna centro meridionale), che rappresenta ancora una dea che abbraccia un bucranio. La percezione del bucranio è infatti evidente, una volta entrati nel preciso contesto simbolico, anche nella seconda figura (nota finora come il frammento di Sardara), nella quale si ammira la dea che abbraccia null’altro se non un bucranio. Si badi anzi, come lo stesso elemento figurativo, il bucranio, sia inserito per ben due volte in questa partitura grafica, la seconda (se pur capovolto) anche alla base (così come ci viene restituita dal frammento) della rappresentazione della dea. Vediamo pertanto, come in quella che definiremo d’ora in avanti la “dea di Sardara”, vi è anche una stupefacente applicazione di quell’effetto del doppio (due linee, due triangoli, due losanghe, ecc.) tendente, nelle manifestazioni artistico-religiose del Neolitico antico, ad amplificare il significato racchiuso in tutto il portato del segno singolo. La dea di Sardara deve intendersi come la narrazione più estensiva del divino che genera la vita, non solo per le manifestazioni simboliche amplificate (ve ne sono altre ancora da interpretare) con cui l’artista e le rigide regole cultuali attinenti alla antichissima tradizione, hanno imposto alla materia, ma soprattutto perché la dea di Sardara, al contrario della dea di Mas Caplier, soggiorna in un pozzo, che solo in virtù della sua presenza ascende al sacro. Il pozzo, con il suo elemento liquido è (forse più che la tomba sotterranea) l’esaltante simbolo della nuova vita che si genera nell’umido del ventre divino e materno. La stupefacente tessitura simbolica su cui insiste la dea di Sardara, si arguisce essere sì complessa che, noi, superficiali viventi il III millennio d.C., riusciamo solo lontanissimamente a penetrarne significato e nobiltà liturgica. Si guardino ad esempio, i quattro cerchi concentrici con punto centrale, posti esattamente al di sopra del bucranio rovesciato, appoggiato al divino ventre. Ebbene, pur nel molteplice significato che assumono, nelle circostanze più varie, i cerchi concentrici di matrice antico-neolitica, ci pare coercitivo avocarne due per il simbolo sul bucranio capovolto della dea di Sardara: energia vitale divina, che si manifesta, luna dopo luna, con l’ingrossamento del ventre della madre-dea. La stessa, identica impressione, materiale e spirituale a un tempo, troviamo a Çatalhöyük, il sito anatolico del Neolitico antico, che in un santuario datato a circa la metà del IX millennio da oggi, presenta un rilievo che venne definito dal Mellaart “la dea incinta”, il quale, pur esso, ci fornisce il racconto eterno e prepotente dell’appropinquarsi alla vita del nascituro, attraverso il testo scritto nei quattro cerchi concentrici con punto centrale, che ci ammoniscono dal corpo della donna-dea.
Ma, la potenza espressiva della dea di Sardara, nella sua funzione di custode del germoglio di vita nel suo divino ventre, viene declinata manifestamente nella esternazione dei cicli lunari necessari alla gestazione e nascita della nuova vita. Infatti, sulla parte inferiore del primo bucranio abbracciato dalla dea, è ben visibile il racconto sui cicli lunari, in numero di dieci. Non soltanto questo, ci dona l’antica arte neolitica, ma relativamente alla stessa enunciazione dei cicli lunari, ci esalta con l’effetto del doppio: infatti, lungh’esso il lato adiacente a quello in cui sono sistemate le prime dieci tacche, ve ne sono altre dieci che fanno bella mostra di sé. La scoperta di questa seconda lista di cicli, dobbiamo alla osservazione dal vivo del reperto, infatti solo ora, chi guarda la solita riproduzione fotografica della dea di Sardara, riesce ad intuire la presenza della seconda lista di cicli, appena al di là della prima.
V’è alfine da aggiungere, come la pertinenza del frammento di Sardara all’Età del Ferro, a causa della presenza di “motivi geometrici” (sic!), ci lasci quanto mai dubbiosi circa il raggiungimento dell’obiettivo di una assegnazione temporale all’esercizio artistico e segnico. Per conto nostro, diciamo che la dea di Sardara, dopo aver varcato i confini di una esperienza umana lunga moltissimi millenni, ci proviene da ultimo, dal pozzo sacro di sant’Anastasia.
la storia
Il Taramelli (che scrive nel 1918) nel racconto della nostra dea di Sardara, paragona l’atteggiamento della: «figurina che stringe fra le braccia al petto, un grosso bastone […] terminato da due corna lunate o da una forcella sporgente oltre la spalla sinistra, […] con lo strano bronzetto edito dal Lamarmora».
Il bronzetto cui si riferisce il Taramelli, fu così definito dal de La Marmora:
«Figura umana imberbe con una specie di cappuccio […] Porta nella mano un attributo forcuto, o se si vuole, terminato in mezzaluna […]», ed è la prima della serie di tre, che quì appresso si trovano orizzontalmente allineate. La seconda figura è quella riportata dall’archeologo che, circa ottanta anni appresso, descrive in modo sì criptico, la parte che ci riguarda del bronzetto pubblicato dal de La Marmora:
«Le due braccia stringono un oggetto che venne completato da un preteso restauro come una forcella semilunare, poi levata».
Bene, andiamo ad interpretare la dichiarazione che nella circostanza, ci fornisce l’archeologo.
In modo immediato, risulta evidente un primo messaggio, dal quale si comprende come la figurina di cui egli discetta sia proprio quella descritta dal Generale, in quanto essa è rappresentata mentre «le due braccia (la mano per il de La Marmora) stringono un oggetto con una forcella semilunare».
V’è un terzo messaggio (dopo renderemo conto del secondo) contenuto nella descrizione del Taramelli: “ci fu in illo tempore un preteso restauro che apportò alla figura la forcella semilunata”. Orbene, sembra fuor di dubbio che, circa ottanta anni prima delle elucubrazioni del Taramelli, il bronzetto avesse un attributo forcuto o a mezzaluna.
Pertanto, in un qualche momento, a partire dalla edizione del secondo volume del Voyage en Sardaigne, sulle antichità (1840), fino al momento in cui parla il Taramelli (la qual cosa fa essendo direttore del Museo di Cagliari), la statuina, posseduta (pare) sempre dallo stesso museo, dovette rimaner orba della sua mezzaluna.
vista dal de La Marmora | vista dal Taramelli | vista odierna |
* excursus - Sembrerebbe facile arguire circa le vicende cui andò incontro il bronzetto in questione, addebitandone la causa allo scandalo sui falsi idoli sardo-fenici, di cui rimase vittima pure il de La Marmora e portò dei falsi bronzetti (anche) nel museo cagliaritano. Resta il fatto che, entrato nel merito della questione, il Pais, in una Memoria all’Accademia dei Lincei del 1881, denunciò (e fu l’unico a farlo in modo onesto) l’inganno subìto dalla comunità scientifica e dal museo. In tale circostanza, la figurina bronzea della quale qui si discute (la n° 124 dell’Atlante del de La Marmora), fu classificata dal Pais come “sospetta” (quindi non nell’elenco dei falsi), però aggiungendo in nota che, gli idoli elencati dal Generale: «Io li giudico non da ispezione oculare, ma dai disegni; ne viene quindi che questa mia distinzione non può essere esatta, e che per es. varî di quelli che io credo sospetti, siano definitivamente falsi». Divenuto egli stesso direttore del Museo di Cagliari, provvide nel 1883 ad “espellere dalle collezioni gli «idoli fenici» doppiamente «falsi e bugiardi»”. Non si può che dedurre che il Sardo-Piemontese, pur armato del più severo cipiglio teso a mondare il museo delle falsità che tanto offendevano la dirittura morale della sua essenza di scienziato, dopo un severissimo esame cui sottopose anche il nostro il reperto, certo con l’aiuto dei più autorevoli conoscitori della materia, decise di certificare la statuina come facente parte degli «idoli genuini» avente, pertanto, tutti i titoli per rimanere esposta al museo come testimone dell’antica arte metallurgica sarda.
Il secondo messaggio (eccolo in arrivo) del Taramelli ci riferisce che probabilmente, dopo il 1885 (anno in cui il Pais lasciò il Museo) e prima del 1903 (anno in cui egli stesso ne assunse la direzione) poté accadere che qualche troppo solerte direttore, si fosse convinto che i dubbi del Pais, sulla totale autenticità del reperto, fossero sollevati proprio dalla presenza della estremità corniforme della figurina bronzea. Pertanto egli potrebbe aver provveduto alla sua rimozione.
Il quarto messaggio ci racconta che, sempre nel lasso di tempo formato da quei diciotto anni, avvenne quel preteso restauro cui fa cenno il Taramelli: ciò significa che altro altissimo funzionario del museo, propendente a restituire autenticità alla primeva completezza della statuina, fece ricomporre il significato artistico originale.
Il quinto messaggio ci rende edotti circa l’ultima atrocità inferta alla incolpevole rappresentazione simbolica e artistica, dalla violenza dell’uomo di cultura, che provvide negli stessi diciotto anni, a privare, di brutto nuovo, il bronzetto del suo attributo forse, più significativo.
Da ultimo, il sesto messaggio: il Taramelli credette autentica la figurina bronzea completa del suo attributo corniforme. Infatti, la collegò immediatamente all’immagine della nostra dea di Sardara, affermando: «ho ricordato questa curiosa figurina in bronzo per l’analogia della postura delle braccia, con questa altra figura in rilievo del vaso di Sardara; ma l’interesse maggiore è, secondo me, fornito dall’oggetto forcuto o lunato che questa figurina porta appoggiato al petto e che trattandosi di un vaso votivo, rinvenuto in un pozzo votivo, ci conduce a pensare ad un oggetto connesso al rituale che si veniva a compiere nel tempio». *
Crediamo sia chiaro anche al lettore, quanto sia evidente e necessario attribuire anche al bronzetto n° 124 del de La Marmora, la stessa descrizione attribuita al menhir di Mas Caplier (dalla Gimbutas) ed al frammento di Sardara (da noi medesimi): rappresentazione di una deità femminile che abbraccia un bucranio.
Ma la simbologia rigenerativa, che sprigiona dall’insieme bucranio e pozzo-utero, ricorre altre due volte (almeno) fra i reperti del pozzo sacro di Sardara.
Il Taramelli, stante la sua statura di ricercatore che basa sue elucubrazioni su ciò che constata personalmente, intesse il seguente, per noi meraviglioso, collegamento con la dea che abbraccia il bucranio, ormai la dea di Sardara: «ricordo anzitutto che anche in due vasi dati dal pozzo, e cioè sulla parete di una brocchetta a collo obliquo, e sul collo di un grosso boccale si osserva la figura in rilievo di un oggetto a foggia di bastone forcuto, con le punte rivolte in alto, che ricorda l’oggetto portato dalla predetta figurina».
il grosso boccale | la brocchetta a collo obliquo |
Ma, forse proprio in virtù della potenza del due, che si ripete e moltiplica, vediamo che in relazione all’altro ricorrente simbolo neolitico, a quattro cerchi concentrici con punto centrale, che vediamo presente sul bucranio inferiore della dea di Sardara, oltre che sul corpo ed a rappresentarne gli occhi (ma con tre cerchi concentrici e punto centrale) vediamo come ad ornamento dello stesso pozzo sacro (come ipotizzato dall’archeologo nella sua ricostruzione della architettura esterna dello stesso tempio) fossero presenti dei cerchi concentrici, la riproduzione dei quali abbiamo proprio in due superstiti frammenti in calcare delle lastre che ornavano l’ingresso. Naturalmente, la reiterazione figurativa di tali attributi, rende evidente il loro reciproco collegamento, ma chiarisce soprattutto l’intrinseco legame degli stessi, proprio con l’elemento simbolico per eccellenza: il pozzo, che contenendoli tutti, diventa quindi sacro.