MAX LEOPOLD WAGNER il padre della linguistica sarda?
Il più grosso rischio, cui va incontro lo specialista d’una certa scienza, è rappresentato dal prendere a piene mani, quanto viene dato per certo in altra disciplina. Lo studio, che ha condotto altri a produrre quei dati, egli non conosce; pertanto gli è ignoto se sia definibile onesto e circostanziato, il percorso per addivenire a quei risultati. Ove, poi, si tratti di dati ascrivibili alla trasmissione di testi di antichi autori, ebbene qui il rischio aumenta a dismisura. D’altro canto, anche se quei concetti sono consacrati dalla scienza ufficiale come veritieri, tale imprimatur sarà valido solo per il tempo necessario all’inesorabile superamento degli stessi, con altri più aggiornati o attendibili. Certo, lo studioso, non potendo essere specialista in tutte le discipline, per superare quel pericolo ha un solo modo, affidarsi alla buona sorte.
La qual sorte non arrise al linguista germanico, il quale, ahilui, mise dei punti imprescindibili alla sua ricerca sulla lingua sarda, non definiti da sé stesso, ma da altri nel corso dei secoli.
In primo luogo, egli non pose in essere una ricerca aperta a tutto l’universo degli idiomi, presenti e passati dell’Isola, con l’obiettivo di venire definitivamente a capo dell’origine della prima lingua sarda, ovvero di quella parte di essa che non subì condizionamenti esterni, ammesso ch’egli fosse in grado di sindacare sì a fondo lo strato primo e principale di quella che noi oggi chiamiamo lingua sarda, da riuscire ad evidenziare tale sottile discrepanza. Dopo di ciò, volgendo la ricerca ai parlari esterni, egli non è andato a sindacare, per ogni elemento di ogni singola parola, tutte, indistintamente, le lingue del passato, nella loro lunghissima evoluzione lessicologica e morfologica, in tutte le aree geografiche, senza escluderne, fra queste, neanche una, con l’intento di trovare un qualche appena percettibile elemento che gli potesse dare un collegamento, anche remotissimo, ad una parte della lingua sarda d’oggidì.
Ben al contrario, lo studioso bavarese restrinse, in modo castrante, il campo di ricerca e seguendo lo stereotipo delle supposte dominazioni succedutesi, nella storia recente, nell’Isola, va alla ricerca di strati lessicali provenienti soltanto dal “punico, latino (di fondo), greco e bizantino, germanico (sic), arabo, catalano e spagnolo, italiano”, come si vede proprio e soltanto le lingue dei popoli che, secondo l’altrui dire, avrebbero dominato la Sardegna. E si rimane vieppiù esterrefatti perché, anche nell’approfondire quello che definisce “elemento indigeno”, cioè “i residui della lingua o delle lingue parlate in Sardegna prima del dominio punico e romano”, non usa il suo strumento filologico per portare alla luce una possibile origine sarda, ma anche qui infaustamente, pretende trovare oltremare, origini alle “molte migliaia di toponimi disseminati per tutta la Sardegna”. Purtroppo si nota come egli, senza ricorrere al suo acume intellettuale, soggiaccia ad altro capzioso luogo comune, secondo cui tutto ciò che è presente in Sardegna, deve necessariamente arrivare da fuori.
Ancora, facendo il calco di un altro pensiero non suo, definisce i Sardi come esclusivamente dediti a pastorizia ed agricoltura, avendo anche (cercato e) trovato nella loro lingua, gran copia di vocaboli che richiamano quelle aree. Ma egli non è arrivato a tale conclusione tramite una mirata ricerca in tutti gli ambiti geografici, inclusi quelli marinari per eccellenza, ponendo al vaglio di uno studio circostanziato, la totalità del lessico ivi disponibile. Sotto quel vuoto impulso culturale della prima metà del secolo scorso, che dipinse il Sardo quale individuo che vedeva il mare come l’inferno - egli stesso afferma: “siccome i Sardi hanno sempre avuto ripugnanza per il mare” (sic!) - si è limitato ad analizzare solo una parte del lessico isolano, per lo più in uso presso località lontane dalla costa.
Ma si può citare, ancora in esempio del suo inopinato modo di procedere, la sua personale, stravagante opinione sui Sardi, la cui lingua dichiara “estremamente povera di termini astratti e di tutte quelle voci che attengono a un ordine di idee un po’ elevato”: poveri Sardi, maltrattati anche dallo studioso che è stato definito come il padre della linguistica sarda. Ed il nostro, infierisce ancora sulla vittima, dalla quale ha, peraltro, ricevuto il viatico verso la notorietà, dichiarando che “in genere le parole della lingua sarda aventi una traccia di spiritualità, sono imprestiti dalle lingue di cultura, cioè italiano, catalano, spagnolo”! Quì siamo, certo, alla quintessenza della angheria filologica perpetrata contro una etnia, che vede il Tedesco, allineato sulla stessa presuntuosa erudizione, priva di approfondita sapienza - molto in voga in quel torno di lustri - dei vari Pallottino e Lilliu.
Con una ricerca sì squilibratamente dipendente dal pensiero altrui, per la mancanza di un suo proprio, sinceramente sentito, approfondimento di almeno un altro strato del consistente bagaglio culturale (diverso da quello linguistico) dell’abitatore della Sardegna, si comprende come il lavoro del Wagner, se pure ha avuto il merito di iniziare una nuova linea di sviluppo, servita certo da canovaccio per i ricercatori della successiva generazione, non poté assurgere ad opera di caratura universale.
La qual sorte non arrise al linguista germanico, il quale, ahilui, mise dei punti imprescindibili alla sua ricerca sulla lingua sarda, non definiti da sé stesso, ma da altri nel corso dei secoli.
In primo luogo, egli non pose in essere una ricerca aperta a tutto l’universo degli idiomi, presenti e passati dell’Isola, con l’obiettivo di venire definitivamente a capo dell’origine della prima lingua sarda, ovvero di quella parte di essa che non subì condizionamenti esterni, ammesso ch’egli fosse in grado di sindacare sì a fondo lo strato primo e principale di quella che noi oggi chiamiamo lingua sarda, da riuscire ad evidenziare tale sottile discrepanza. Dopo di ciò, volgendo la ricerca ai parlari esterni, egli non è andato a sindacare, per ogni elemento di ogni singola parola, tutte, indistintamente, le lingue del passato, nella loro lunghissima evoluzione lessicologica e morfologica, in tutte le aree geografiche, senza escluderne, fra queste, neanche una, con l’intento di trovare un qualche appena percettibile elemento che gli potesse dare un collegamento, anche remotissimo, ad una parte della lingua sarda d’oggidì.
Ben al contrario, lo studioso bavarese restrinse, in modo castrante, il campo di ricerca e seguendo lo stereotipo delle supposte dominazioni succedutesi, nella storia recente, nell’Isola, va alla ricerca di strati lessicali provenienti soltanto dal “punico, latino (di fondo), greco e bizantino, germanico (sic), arabo, catalano e spagnolo, italiano”, come si vede proprio e soltanto le lingue dei popoli che, secondo l’altrui dire, avrebbero dominato la Sardegna. E si rimane vieppiù esterrefatti perché, anche nell’approfondire quello che definisce “elemento indigeno”, cioè “i residui della lingua o delle lingue parlate in Sardegna prima del dominio punico e romano”, non usa il suo strumento filologico per portare alla luce una possibile origine sarda, ma anche qui infaustamente, pretende trovare oltremare, origini alle “molte migliaia di toponimi disseminati per tutta la Sardegna”. Purtroppo si nota come egli, senza ricorrere al suo acume intellettuale, soggiaccia ad altro capzioso luogo comune, secondo cui tutto ciò che è presente in Sardegna, deve necessariamente arrivare da fuori.
Ancora, facendo il calco di un altro pensiero non suo, definisce i Sardi come esclusivamente dediti a pastorizia ed agricoltura, avendo anche (cercato e) trovato nella loro lingua, gran copia di vocaboli che richiamano quelle aree. Ma egli non è arrivato a tale conclusione tramite una mirata ricerca in tutti gli ambiti geografici, inclusi quelli marinari per eccellenza, ponendo al vaglio di uno studio circostanziato, la totalità del lessico ivi disponibile. Sotto quel vuoto impulso culturale della prima metà del secolo scorso, che dipinse il Sardo quale individuo che vedeva il mare come l’inferno - egli stesso afferma: “siccome i Sardi hanno sempre avuto ripugnanza per il mare” (sic!) - si è limitato ad analizzare solo una parte del lessico isolano, per lo più in uso presso località lontane dalla costa.
Ma si può citare, ancora in esempio del suo inopinato modo di procedere, la sua personale, stravagante opinione sui Sardi, la cui lingua dichiara “estremamente povera di termini astratti e di tutte quelle voci che attengono a un ordine di idee un po’ elevato”: poveri Sardi, maltrattati anche dallo studioso che è stato definito come il padre della linguistica sarda. Ed il nostro, infierisce ancora sulla vittima, dalla quale ha, peraltro, ricevuto il viatico verso la notorietà, dichiarando che “in genere le parole della lingua sarda aventi una traccia di spiritualità, sono imprestiti dalle lingue di cultura, cioè italiano, catalano, spagnolo”! Quì siamo, certo, alla quintessenza della angheria filologica perpetrata contro una etnia, che vede il Tedesco, allineato sulla stessa presuntuosa erudizione, priva di approfondita sapienza - molto in voga in quel torno di lustri - dei vari Pallottino e Lilliu.
Con una ricerca sì squilibratamente dipendente dal pensiero altrui, per la mancanza di un suo proprio, sinceramente sentito, approfondimento di almeno un altro strato del consistente bagaglio culturale (diverso da quello linguistico) dell’abitatore della Sardegna, si comprende come il lavoro del Wagner, se pure ha avuto il merito di iniziare una nuova linea di sviluppo, servita certo da canovaccio per i ricercatori della successiva generazione, non poté assurgere ad opera di caratura universale.