Çatalhöyük
Çatalhöyük
non una “insussistente città”, ma Grandioso
“Luogo Santo”, con santuari e cumbessìas pieni di sepolture[1]
Nel percorso intrapreso per approfondire le modalità d’incontro ed i modelli di scambio, fra le società della Sardegna Paleolitica e Danubiana e nel cercare una comprensibile connotazione alla nascita e sviluppo del “dio femminile”, ci siamo imbattuti nei ritrovamenti straordinari del sito meso-neolitico di Çatalhöyük, nell’Anatolia centro meridionale.
Decidiamo di parlarne estesamente, causa la differenza abissale che abbiamo visto ergersi fra le determinazioni degli specialisti e le nostre conclusioni, queste, basate sulla semplice coerenza di un ragionamento che si dipana attraverso l’esame dei crudi dati da essi messi in luce.
I cumuli, Ovest (a sinistra) ed Est (il più alto), di Çatalhöyük visti da nord, sull’altopiano anatolico che si distende a 1000 metri, a circa km. 50 a sud-est di Konya. Da J. Mellaart, 1967.
J. Mellaart, il primo scavatore del sito, nei primi anni sessanta del secolo appena passato, definì l’avvicendamento dei dodici livelli di costruzioni (il cui deposito si rileva essere profondo cinquanta piedi), andatisi evolvendo (com’egli dice) nell’arco di ottocento anni (circa dal 6500 al 5700 a.C.), come le fasi di una molto ben sviluppata città. Inoltre, asserì essere «la ricchezza dei materiali prodotti dalla città, irraggiungibile per ogni altro sito neolitico», dandone anche una connotazione sociale molto evoluta[2]. Gli scavi, da lui prodotti, portarono alla luce un’area di circa 4000 m2 a fronte di una estensione del sito, che fu chiamato East Mound, di oltre 12 ha.
Le costruzioni da lui scavate e lo studio di ogni singolo contesto delle stesse, portò l’archeologo inglese a declamare, relativamente a quelle analizzate, la presenza, negli strati dal II al X, di un totale di 63 templi o santuari, contro un totale di 103 abitazioni. Tali costruzioni, elevate con l’ausilio di mattoni squadrati seccati al sole ed aventi misure standardizzate, avevano un accesso dal terrazzo, attraverso un pertugio a sezione quadra e per il mezzo di una scala a pioli che dava nella grande sala in prossimità del forno ed accanto al focolare. Sempre all’interno delle costruzioni, al di sotto di piattaforme addossate alle pareti, aventi funzione di letto e divano, erano sepolti i defunti, sia nei santuari che nelle abitazioni.
Le dimensioni delle costruzioni erano paragonabili, pur rimanendo i santuari mediamente più grandi delle abitazioni. Ma la caratteristica più saliente di questi ambienti risultò essere il meraviglioso arredo, essendo però i templi molto più generosamente decorati delle abitazioni, soprattutto con pareti dipinte con soggetti come tappeti carichi di simbolismi, avvoltoi, figure umane; rilievi in stucco di “dee”/“donne” partorienti e non, animali; esposizione di bucrani, file di corna, teste di animali ecc.
Sorge ora, spontanea, la seguente pratica considerazione.
Come è possibile che una città sia costruita con un numero di abitazioni appena doppio, rispetto al numero dei templi?
Sulla base di tale interrogativo scopriamo come i nostri dubbi siano amplificati da altri rilievi che fuoriescono dalla lettura delle relazioni e testi del Mellaart, il quale ebbe anche a manifestare perplessità profonde in merito al contesto così come era andato delineandosi: «In più, uno si aspetterebbe che la più antica occupazione del sito venisse realizzata il più vicino possibile al fiume». Come detto, a quella sua, aggiungiamo altre valutazioni.
Si riscontra che nella supposta città:
- i templi siano la metà delle abitazioni
- manchino i pozzi e le fonti, i quali sono, non solo necessari, ma assolutamente indispensabili per la sopravvivenza di una comunità
- mancano laboratori ed officine, artigianali o industriali, per la produzione di tutte le migliaia di utensili finemente lavorati in ossidiana, oltre a quelli atti a creare armi, gioielli, vasi, tessuti, ceste, collane, prodotti della falegnameria, specchi, eccetera, trovati in abbondanza nel sito
- mancano le montagne di rifiuti, generati dalla fabbricazione dei prodotti appena menzionati, in tanti secoli di vita della località
- mancano i pubblici edifici, necessari per il coordinamento di un così elevato vivere civile
- mancano le strade ed i vicoli
- mancano i ricoveri per gli animali
- la irrazionale porta di ingresso non permette di accettare le abitazioni come vissute 24 ore al giorno per 365 giorni ogni anno
- le aperture per accedere alle dispense erano poco alte, costringendo le persone ad accedervi strisciando, la qual cosa non è funzionale se pensata al vivere d’ogni giorno, ma sopportabile in sporadiche occasioni[3]
- il conteggio dei defunti è sottostimato rispetto al numero di individui presumibilmente vissuti in un dato periodo
- i resti dei defunti rinvenuti, appartengono, per lo più, a donne e bambini, mentre sono pochi gli uomini
- il processo di scarnificazione delle membra dei defunti raggiungeva livelli, così casualmente disomogenei, da poterli ritenere impensabili, in una società così perfettamente organizzata.
Bene, tutta questa serie di insormontabili ostacoli, ci fanno propendere verso una definizione, del sito scavato dal Mellaart, che certamente non può essere quella racchiusa nel vocabolo “città”.
Di già, l’archeologo, aveva intrapreso una via per smentire sé stesso, dichiarando che “della vasta superficie del sito, soltanto un’area di un acro del quartiere sacerdotale era stata scavata”.
Ma, osserviamo, un quartiere sacerdotale, in quanto “quartiere”, è pur sempre abitato (tutto l’anno) ed ha pertanto assoluta necessità almeno di strade e d’una fonte cui attingere l’acqua, necessaria a tutti i bisogni della vita quotidiana ed anche, forse, ai riti della sfera sacrale. Quindi, ci pare ancora impossibile usare la voce “quartiere”, perché siamo in assenza di un requisito indispensabile per la sopravvivenza e quindi la qualifica semantica, di un qualsivoglia “quartiere”.
Noi abbiamo pensato ad un centro o santuario, adibito anche a luogo di sepoltura, ma abitato per brevi periodi di tre, nove giorni, saltuariamente, in occasione di ricorrenze legate alla vita naturale e di poi, a quella trascendente (solstizi, equinozi), alla deposizione per la scarnificazione (che in alcuni casi rivela una piětās molto articolata), alla sepoltura, che racconta di modelli attuativi multipli e di antichissima tradizione, se è vero che il Mellaart vada ad affermare come, lungo tutto il periodo di frequentazione del sito, non si ravvisino cambiamenti nelle abitudini di sepoltura. Probabilmente, il Luogo poteva essere abitato, nella sua interezza, solo nelle circostanze celebrative cicliche e nel momento dedicato alla manutenzione ed imbiancatura delle costruzioni (individuato dall’archeologo nel periodo più caldo dell’anno), mentre in occasione delle altre due possibilità (scarnificazione e sepoltura), la presenza si sarebbe potuta limitare ai soli congiunti del defunto ed agli addetti alla liturgia del santuario di appartenenza della famiglia. In tutti questi casi, l’acqua necessaria per il breve periodo, sarebbe stata portata seco dai partecipanti, in modo organizzato, i quali all’occorrenza avrebbero potuto recarsi di nuovo al pozzo più vicino (anche se distante diversi chilometri) per attingere il liquido, necessario (a quanto pare) anche per la preparazione in loco del pane quale mezzo rituale.
Ricostruzione di pittura parietale rinvenuta nel santuario 14 del livello VII, che riproduce in primo piano la pianta dei santuari e cumbessias, con all'orizzonte l'eruzione del cono destro del vulcano dell'Hasan Dag. Una straordinaria immagine di un grande artista di novemila anni fa. Da J. Mellaart 1967.
Naturalmente in questa ottica non vi sarebbe stato bisogno di una sorgente o pozzo in loco e nemmeno di strade, perché i servizi venivano officiati al chiuso di templi e cumbessias. E non vi sarebbe stata la necessità di tutte le altre incombenze elencate appena supra.
Questo modello, da noi ipotizzato, sarebbe valido ove la vera “città” si trovasse molto distante dal cumulo una parte del quale fu oggetto di scavo. Ma sarebbe vieppiù valido ove altro scavo in un’area distante dalla precedente (ma sempre nell’East Mound), desse gli stessi risultati insediativi desunti dal Mellaart, in merito alla tipologia, destinazione e numero delle costruzioni. (vedasi Anno 1995).
Certo, abbiamo pensato di prim’acchito che la misteriosa città (cui il Mellaart si riferiva) di riferimento, fosse quella che l’archeologo definisce Çatalhöyük Ovest o West Mound, ma lo stesso ci ha sempre detto che tale insediamento sembri essere abitato in data successiva all’abbandono del Luogo Santo. (vedasi Anno 2000). E, d’altro canto, l’aggiornamento delle nostre conoscenze, ci ha messo nella condizione di prendere in considerazione l’ipotesi che, primi abitatori del West Mound (early Chalcolthic), fossero genti in fuga dal secondo diluvio universale.
Quindi si deve cercare la “città” in un insediamento molto distante. Ma, pare che non vi siano stati (o non siano stati ancora scoperti) insediamenti abitativi così estesi (alcuni ettari) da poter essere definiti “città”, in un raggio, diciamo di dieci, massimo venti chilometri. Bene, se la situazione descritta può essere plausibilmente accettabile, significa che è errato cercare un grande insediamento umano di vari ettari.
Infatti, può essere credibile che ad alimentare spezzoni di vita, celebrazione di riti, funzioni funebri e feste nel nostro Luogo Santo, anzi di tutto il cumulo di oltre dodici ettari, fosse una largamente sparsa comunità, disseminata lungo le valli dei non lontani corsi d’acqua, abitante decine e decine di villaggi neolitici ed avente in comune l’appartenenza ad una civiltà basata sulla dominanza della donna creatrice di vita e padrona esclusiva della “casa”, ove si definivano e manifestavano, tutte le occupazioni della comunità, come evidenziato in altra sede dal professor Hodder. Tale insieme sociale aveva al centro del proprio meccanismo cultuale, la “donna fatta dea”, affiancata dai simboli rappresentanti forme rigenerative come bucrani, tori, teschi umani, o simboli del trapasso come avvoltoi, oltre segni del divenire come triangoli, mani, rombi, acqua che scorre, secondo una precisa nomenclatura. Con tale decifrazione, diventano credibili tutte le pregiudiziali che ostavano all’accoglimento del quadro generalmente accettato: “la città”. Infatti, in questa ottica, esse risultano tutte fruibili verso il riconoscimento delle innumeri comunità abitative disseminate ben lontano:
- esse avranno un numero di templi, atti alla quotidiana devozione, molto esiguo rispetto alle abitazioni
- i pozzi e le fonti sono in esse certamente presenti
- laboratori ed officine saranno rappresentati nei villaggi in funzione della attitudine del luogo, della esperienza degli artigiani e degli intendimenti di sviluppo d’ogni singola comunità
- i pubblici edifici saranno limitati alle necessità ed alla complessità di ciascun piccolo insieme sociale
- strade e ricoveri per le bestie saranno quelli ritenuti architettonicamente e tradizionalmente necessari
- la porta d’ingresso alle abitazioni sarà normalmente a livello, o quasi, del piano stradale
- il conteggio dei defunti sarebbe facilmente arguibile
- ed inoltre, possiamo aggiungere che, se il processo di scarnificazione raggiungeva livelli disparati (se accettiamo l’assunto dell’Autore, secondo il quale la sepoltura era posta in essere una sola volta l’anno), di ciò poteva ben essere causa, proprio la lontananza dei villaggi.
Mentre, in relazione alla rappresentanza dei defunti nelle sepolture, è doverosa una qualche considerazione.
Da quanto si evince dai dati presentati negli anni sessanta, sembra che non tutti gli appartenenti alla comunità di riferimento (qualunque sia stata) fossero seppelliti nel sacro sito. Non tutti gli uomini, e questo è pacificamente rimarcato dall’autore, ma neanche tutte le donne e i bambini sembrano poter accedere ad una sepoltura nel luogo sacro. Ammettiamo, tuttavia, che di questa ultima categoria sia davvero difficile fare (al momento) anche una azzardata analisi, non avendosi alcuna statistica in merito. Anzi sembra non sia dato sapere se questi giovani appartenessero ad entrambi i sessi o, come preferiamo credere e dichiarare, fossero tutte delle giovani novizie avviate al sacerdozio.
Bene, facendo appello al buon senso ed in considerazione dell’elevato numero di templi o santuari, si potrebbe credere che ciascuno di essi venisse edificato da una famiglia o clan del villaggio. I componenti di tale famiglia o clan, avrebbero anche provveduto a fornire al loro tempio il personale necessario ad officiare tutte le funzioni connesse con le varie esigenze: esso era quasi certamente formato dalle sacerdotesse e dalle giovanette necessarie a completare l’organico in ordine all’espletamento dei vari uffici. Inoltre, pare naturale credere, come fece anche il Mellaart, che le sacerdotesse godessero del privilegio d’essere sepolte nel tempio della loro famiglia. Di tale Ricostruzione di santuario o cumbessìa,
possibilità, pensiamo noi, potettero godere anche le novizie da Mellaart 1967.
e forse gli infanti (ove un tristo destino facesse defungere prematuramente alcuni appartenenti alle due categorie). Ma, cosa più importante, veniva seppellito nel tempio anche il capo del clan (may have been reserved for special individuals only, come dice l’archeologo), quasi sempre accompagnato da doni più ricchi di quelli trovati nelle abitazioni o cumbessìas. Non si può escludere che il tempio accogliesse anche le spoglie di un qualche individuo molto particolare del villaggio, come un eroe (ma non di guerra, a sentire della mancanza di offese riscontrata sugli scheletri). I clan e le famiglie avrebbero costruito, a fianco del loro tempio, anche la loro saltuaria abitazione, la cumbessìa, che potesse accoglierne i rappresentanti che fossero venuti a trascorrere quei brevi periodi legati alle cerimonie per glorificare la “dea”/“donna”, ed alle funzioni connesse al rito mortuario. Nella cumbessìa venivano forse seppelliti i capi delle famiglie e forse i componenti delle stesse. È facile credere che i villaggi più potenti ed emancipati, dal punto di vista della ricchezza prodotta, congiunta ad una elevata quantità di abitanti, potessero edificare più di una cumbessìa.
Risulta altrettanto proponibile che esistessero anche dei villaggi (come sempre accade nello svolgersi delle umane vicende) che, per qualche ragione, non avessero risorse sufficienti ad edificare le due costruzioni nel luogo sacro, ma non potessero sottrarsi all’obbligo morale di edificare almeno il santuario del villaggio, sia pur arredato in modo parsimonioso, deponendovi le spoglie del capo famiglia e degli altri aventi diritto, accompagnate da doni che ne denunciavano lo stato. Come, infatti, ricorda lo scavatore: «persino le sepolture in un certo numero di santuari erano ben lungi dal manifestare un ricco corredo, ma erano piuttosto emarginate sul confine delle povertà».
In questa ottica, siamo ora in grado di conferire razionalità alla porta di accesso alle costruzioni: essa era sistemata sulla copertura, non certo quale manifestazione difensiva contro eventuali nemici, (che ben facilmente avrebbero potuto accedere al terrazzo con delle scale e prendere, con la sola arma del fumo, tutti gli eventuali abitanti rintanati al di sotto), ma per tenere lontani quegli animali di una certa taglia, che venissero attratti dal sottile odore dei resti dei defunti: per tali animali, non avrebbe rappresentato ostacolo alcuno, la porta di accesso di una tradizionale abitazione.
Rimane da considerare che, il mantenere in vita quel complesso esito d’antichissima provenienza, così ben radicato nel più profondo dei ricordi incancellabili, pur se appagante il principio vitale di quegli evoluti esseri umani, era carico di pesanti adempimenti materiali, in ordine sia alla manutenzione annuale di interni ed esterni sia alla totale riedificazione delle costruzioni, nelle varie occasioni in cui il fuoco andò a distruggerle completamente. E, questa, valga quale semplice considerazione di carattere generale, atta a meglio circostanziare la forte volontà nel tenere in vita un processo di nobilitazione spirituale e identitaria di quelle popolazioni. Ma, deve anche dirsi, altrimenti il quadro non sarebbe completo, della pesantezza fisica circa l’espletamento della complessa funzione mortuaria. All’atto del defungere, dovevano comunque compiersi certi rituali nell’abitazione del defunto, quali pianti, lamenti e canti funebri, lavaggio, vestizione, consumazione del pasto. Rituali dettati non tanto, banalmente, dalla tradizione quanto, parrebbe, dalla forte volontà di tenere vivo un legame con un passato grandioso da non dimenticare, passato che sarebbe alfine doveroso andare a investigare, ma che nessuna delle tante altisonanti istituzioni ha avuto la capacità culturale di porsi come obiettivo, finora. Dopo l’insieme di formule ed atti propri del rito, dovevasi intraprendere il lungo viaggio verso il tempio/sepolcreto, con al seguito tutti i rappresentanti della comunità, comprese le sacerdotesse e con i personaggi addetti a predisporre le spoglie per la scarnificazione, in un contesto spaziale ove di già altri defunti erano presenti. Anche questa incombenza doveva essere corredata dei suoi precisi canoni: intanto doveva esistere una sorta di marcatura (o luogo di proprietà, ma propendiamo per la prima indicazione) che permettesse ai congiunti, in ogni momento, di individuare il proprio defunto; inoltre era necessario un controllo del livello raggiunto dal processo; pare anche che in alcuni casi si procedesse ad asportare il teschio del defunto per rituali funerari che avevano luogo nei santuari; era in vita anche la consuetudine di colorare in rosso-ocra, cinabro, blu e verde alcune ossa dei defunti, secondo una codifica che ci sfugge per lo più. Quando il processo di privazione delle parti molli era completato, lo scheletro veniva sottoposto ad una serie di riti che portavano alla sepoltura, al di sotto di una delle piattaforme, nel tempio o nella cumbessia.
Come si può facilmente arguire, tutte quante le suddette operazioni rappresentavano certo un impegno di tempo che, se possiamo definire non indifferente (nell’economia di una vita vissuta intensamente) per una parte della popolazione, definiamo certamente al di fuori della portata, di una certa altra parte della intiera popolazione della nutrita schiera dei villaggi in cui si osservava quella complessa pratica cultuale. Ecco, per quanto ci consta, spiegato il motivo per cui l’Autore definisce sottostimato, il conteggio dei defunti rispetto al numero di individui presumibilmente vissuti in un dato periodo. La parte meno abbiente di molte di quelle comunità, non portava i propri defunti nella ambita, costosissima, lontana area templare e sepolcrale.
Bene, trent’anni dopo l’esaltante esperienza del Mellaart, nel 1993, sono di nuovo iniziati gli scavi a Çatalhöyük. Il direttore, Ian Hodder dell’Università di Cambridge, inizia nel 1995, sulla rivista Anatolian Archaeology, la pubblicazione di relazioni annuali sulle attività svolte nel sito, dalle quali estrarremo quelle parti che troveremo si confacciano alla tematica quì evidenziata. Il professor Hodder, inizia la sua avventura conoscendo molto bene il lavoro del suo predecessore (alle cui lezioni, all’università di Londra, aveva assistito da studente) le cui conclusioni ha fatto proprie, ma si aspetta le più grandi novità in merito alle domande cui fornire una risposta soddisfacente.
Anno 1995 - Sulla base di quanto osservato, nella sua relazione annuale, lo scavatore sostiene di già che i dati ricavati «dimostrano che non c’è nessuna prova di una “elite” rituale concentrata in una parte del sito». Questa sua dichiarazione, mentre risponde ad una nostra domanda precisa, sembra naturalmente dare ampio credito all’esistenza, su tutto il cumulo di 12 ha (East Mound), di un modello “insediativo” identico a quello già scavato dal Mellaart, nei soli 4000 m2.
Anno 1996 – In un’area in cui operò il Mellaart (circa livello VII), alcuni scavi hanno ora posto in luce come, in alcuni muri divisori fra le abitazioni, vi fossero degli “ingressi bloccati” a posteriori. Ciò fa esclamare all’Hodder: «tutto questo suggerisce che, almeno a questi livelli più bassi, l’ingresso dal terrazzo non era il solo possibile modo di accedere alle abitazioni o templi». Noi non ci sentiamo d’accordo, perché gli elementi da lui richiamati sono “porte di passaggio” tra due edifici adiacenti, non da identificarsi come delle vere e proprie porte di ingresso dall’esterno, ma come dei semplici passaggi da un ambiente ad un altro, in livelli in cui cumbessìas e templi si estendevano su una superficie più ampia. In un solo caso riconosciamo una certa validità alla sua affermazione: «un’altra chiusura (another blocking) fu vista nella parete sud del tempio 8». Infatti, tale parete sud, si affaccia verso una corte, che peraltro non può essere definita un “esterno” in senso completo, perché tale ambiente risulta in genere circoscritto dalle alte pareti delle costruzioni. Tale “porta” non può pertanto sostituirsi, nella sua funzione fondamentale di modulo di accesso e uscita dall’abitazione, a quella indispensabile del terrazzo.
Anno 1998 – Qui il professor Hodder sembra dare altro supporto al nostro modello.
Infatti comincia a chiedersi, certo allarmato, come fosse possibile vivere nell’angustia di simili ambienti. Ma non è in grado però di darsi una spiegazione appena ragionevole, perché di fatto non è ancora riuscito ad astrarsi dai legami mentali seguiti al suo giovanile imprinting, che lo hanno condizionato in decenni di studio. Il raggiungimento di una visuale critica, sarebbe la necessaria premessa per pensare ad una diversa possibilità d’uso del sito.
L’archeologo, seguendo la impostazione che vede in Çatalhöyük una grande città, intravvede un minuto codice sociale atto a sostenere e guidare la comunità persino nei movimenti e gesti all’interno di templi ed abitazioni. Ma, proprio queste sue considerazioni sulla sensazione della presenza di un codice comportamentale, fortifica la nostra convinzione che l’area che sta valutando, sia stata semplicemente un “luogo sacro”: solo in tale ambito ci si deve attenere a delle ferree regole, rigidamente ripetitive, per il rispetto che si deve al luogo!
Poi, concludendo il suo pensare, egli sostiene: «Infatti, sebbene Çatalhöyük sia spesso definita una città o una grande città, in realtà, in termini organizzativi, è un grandissimo villaggio». Ebbene, l’Hodder, senza averne ancora una chiara visione, ha tuttavia intuito il livello di organizzazione sociale della comunità che frequenta il “cumulo”. Inoltre, per corroborare il declassamento di Çatalhöyük da città a villaggio, sostiene e spiega, come tutto faccia pensare al villaggio: il livello di lavorazione è pari a quello domestico; i materiali usati nelle costruzioni sono diversi, cioè non seguono uno standard; il magazzinaggio del cibo avviene su scala domestica. Afferma che, anche la maggior parte della produzione di ossidiana abbia luogo su scala domestica: ma qui non fornisce alcuna notizia di scarti di lavorazione del vetro vulcanico, che avrebbero dovuto essere ben numerosi, a giudicare dal gran numero di nicchie e depositi contenenti “pieces” ed anche “blades”, per non parlare degli specchi. È ancora forte in noi il ricordo del disappunto esternato dal Mellaart, dalle pagine di Scientific American[4], in cui rammenta come, nelle circa duecento costruzioni di Çatalhöyük dallo stesso scavate, siano stati trovati migliaia di utensili in ossidiana finemente lavorati, ma solo due scatoline di schegge; migliaia di utensili in osso, ma non i mucchi di scarti o frantumi, generati nella lavorazione degli stessi. Ecco, il signor Hodder dovrebbe rispondere e giustificare l’assenza di tutte le grandissime quantità di scarti della lavorazione. Pare infatti evidente come, anche una lavorazione su scala domestica, avrebbe dovuto lasciare montagne di scarti nel periodo di molti secoli. Montagne di scarti che avrebbero dovuto essere commisurate: alle montagne di escrementi umani ed animali, alle grandi consistenze di rifiuti derivanti dai pasti e dalla maniacale pulizia dei santuari e cumbessias, alle montagne di detriti di ceneri e carboni, derivanti da una frequentazione del sito, appena periodica, ma lunga circa un millennio (perché i tempi ricavati dal Mellaart si sono ora allungati e nel prosieguo delle analisi, si raddoppieranno perfino).
Anno 1999 – Viene effettuato un sondaggio che arriva alla base del cumulo ove si trova la bianca marna servita per produrre calce per intonaco per le costruzioni del luogo. Nei livelli più antichi, XI e XII si indovinano strati di stalle per animali erbivori (capre e pecore), nonché segni di attività di scheggiatura dell’ossidiana e produzione di grani d’osso. Nostra considerazione: si trattò forse di una fase di “prova di insediamento” (con l’accezione più estesa del vocabolo), che non andò in porto come tale, lasciando la strada, per qualche motivo, all’idea del luogo santo. Il livello XII fu datato, sulla base di semi bruciati di grano, Triticum/Scirpus, a circa il 9000 BP cal[5].
Anno 2000 – Nel West Mound (il cumulo di fianco a quello East, ove il Mellaart pensava si fossero trasferiti gli abitanti che abbandonarono il livello I di quest’ultimo) si è prodotto uno scavo di 12x6 metri, entro cui sono stati scoperti residui di quattro/cinque livelli di occupazione sottostanti sepolture del tardo romano e primo bizantino. L’architettura è molto diversa da quella dell’East Mound. I muri sono sempre fatti con mattoni di fango, ma sono doppi e generamente non intonacati, così come le pavimentazioni. Le costruzioni sembrano seguire una pianta oblunga. Ritrovamenti: residui di materiale botanico mostrano qualche differenza con l’Est Mound, con granaglie di dimensioni più grandi e una grande varietà di organismi; similmente i residui di animali quali pecore e capre paiono sempre più presenti, con assenza di animali selvatici. Riguardo la pianta delle costruzioni, esse sembrano non avere riscontri in tutta l’Anatolia del periodo Calcolitico. Certo il nuovo insediamento non poté essere il seguito di quello East, se pur appena dismesso, come ipotizzato dal Mellaart, così come non poté essere la dimora quotidiana della moltitudine di genti che frequentavano Çatalhöyük, come noi abbiamo supposto.
Anno 2001 - Studio dei dati. Ci si è concentrati per esempio nello stabilire quale fosse il paesaggio del sito, circa novemila anni fa. Risulta che dovettero esservi dei grossi diluvi stagionali e terreni umidi, proprio nel luogo in cui insisteva Çatalhöyük. V’è una eco di ciò nel ritrovamento di un gran numero di uccelli acquatici sul posto. Fu quindi sorprendente scoprire che i fitoliti dei cereali, indicassero una coltivazione in terreno secco: a quel tempo, infatti, le più vicine terre secche, si trovavano a 5-10 chilometri di distanza.
Ebbene sì, questa è una conferma scientifica che avvia il nostro modello, per le genti che frequentavano il sito di Çatalhöyük, ad essere sempre più accettabile. Infatti, noi pensavamo a una comunità di villaggi sparsi in un raggio di 10-20 chilometri dal sito. Il signor Hodder conferisce, se possibile, una ancor maggiore solennità alla precedente sua dichiarazione, affermando che la maggior parte degli specialisti, sono d’accordo sul fatto che il sito sarebbe stato meglio sistemato su per il locale sistema di fiumi, verso territori più alti e secchi.
Anno 2002 – Una ricerca di archeobotanica, condotta da A. Fairbairn (dell’Università Nazionale di Camberra) anche sui semi carbonizzati raccolti nella campagna del Mellaart del 1962, ha confermato come la comunità fosse pesantemente dipendente dall’agricoltura per cibo (e foraggio), pur restando incerta la localizzazione dei campi del raccolto, a causa della ricostruzione del paleoambiente che rende impossibile la pratica di una tradizionale agricoltura proprio nel luogo ove è sistemato il cumulo. Lo studioso, che ha memorizzato il modello pensato dal Mellaart, pensa altresì, che con una tale grande popolazione da sfamare e con terre praticabili presenti solo in aree sopraelevate, una agricoltura fatta a macchia di leopardo non incontrerebbe una accettabile logica agricola. Inoltre, il Fairbairn si ritiene sfortunato per non aver trovato magazzini del raccolto, come si conviene ad una comunità agricola che riserva, alla semina ventura, una parte di esso. Ma, noi desideriamo tranquillizzarlo su questo punto, infatti: era semplicemente impossibile che il suo desiderio si realizzasse, dal momento che Çatalhöyük non era una città vissuta, ma nemmeno un villaggio vissuto. I magazzini del grano riservato alla semina esistevano eccome! Ma erano dislocati molti chilometri lontano, nei tanti villaggi, abitati dagli occasionali frequentatori del luogo santo di Çatalhöyük.
Relativamente all’anno 2005, non possiamo esimerci dal riportare le “New finds and new interpretations at Çatalhöyük” di Ian Hodder. Il conduttore degli scavi mette, forse, una esagerata enfasi nell’introdurre il ritrovamento di un sigillo, di cm. 5x7, che definisce “rappresentare un animale, probabilmente un orso”. La figura nel sigillo ricorda, in una certa misura, il rilievo trovato dal Mellaart nel tempio 23 del livello VII e da lui definito rappresentare una “dea gravida”, raffigurata con le braccia sollevate, con gli arti inferiori posti allo stesso modo ed avente quattro cerchi concentrici con punto centrale, all’altezza dell’ombelico. Qui la nuova interpretazione dell’Hodder: «Così è probabile che i rilievi con le braccia e le gambe rivolti in alto non siano dee ma orsi». Siccome, aggiunge, dipingere animali, come i leopardi nelle case, è normale a Çatalhöyük, non sarebbe sorprendente se trovassimo un orso. E continua: “Per lungo tempo si è ritenuto che alcune forme di “dea madre” fossero parte centrale del simbolismo di Çatalhöyük, e questi punti di vista erano in parte basati sulla interpretazione dei rilievi con le braccia rivolte in su come riferiti a una donna. Mentre rimane possibile che le figure siano “orsi madre” e rappresentative di una divinità femminile, c’è ora poca evidenza che esse siano delle donne davvero”.
Orbene, noi siamo in totale disaccordo con il grande Professore:
1)- la figurina del sigillo, così come riportato su Anatolian Archaeology, può rimandare a tanti animali, ma certamente non ad un orso: infatti, questo animale ha una testa, rapportata alle proporzioni che risultano dalla figurina, molto più voluminosa e lunga, il muso in particolare è molto allungato, l’occhio è sempre piccolo, l’orecchio è di modeste dimensioni rispetto alla testa, inoltre ha cinque artigli. Tutto ciò non si riscontra nel sigillo. Ci sembra anche (forse) non rinvenire la necessaria articolazione plantigrada negli arti inferiori della figurina.
2)- il rilievo murale del Mellaart, crediamo trovi meraviglioso accomodamento artistico nella definizione “dea gravida” (per noi anche “donna gravida”). Infatti, il corpo di quella che qui ci sembra proprio la “donna dea”, è interamente ricoperto di messaggi simbolici tipicamente appartenenti alla terminologia della Madre Dea Donna Incinta. Essi insistono sia sulle pareti dei templi e delle tombe, che propriamente sul corpo e sul ventre della Dea, come in questo caso. La serie di losanghe con punto centrale, che si trovano perpendicolari dalla testa all’ombelico, rappresentano nel loro insieme una colonna della vita per eccellenza, stante il loro intrinseco valore di segni della fecondità. Esse sono poste anche una dentro l’altra e con punto centrale, significanti l’utero ed il seme al suo interno, pronti a generare la vita. Altrettanto dicasi del motivo, in evidenza prorompente, posto sull’ombelico: quattro cerchi concentrici con, al centro, un punto, quasi a voler manifestare la concentrazione della potenza creativa della Donna e della Dea.
D’altro canto, non si può affatto dimenticare come le manifestazioni artistiche incentrate sulla glorificazione delle caratteristiche procreative delle deità e degli esseri, nell’accezione più estesa di questo ultimo vocabolo, siano quasi sempre concentrate su una base (o supporto) dalle caratteristiche inconfondibilmente antropomorfiche. Pertanto, togliere alla “pregnant goddes” del tempio 23, la sua fondamentale caratteristica di “donna”, ci sembra quanto mai azzardato dal punto di vista meramente interpretativo della informazione contenuta, parendoci anche (nel caso ricorra questa possibilità) un maldestro e veramente insufficiente tentativo di adire una nuova via (o moda) esegetica.
Inoltre, se il signor Hodder si sente di affermare: «Così è probabile che i rilievi con le braccia e le gambe rivolti in alto non siano dee ma orsi», dovrebbe spiegare cosa stiano a fare le numerose teste di toro e teste di ariete e bucrani, sistemate esattamente al di sotto delle raffigurazioni ch’egli definisce di orsa. Crede egli forse ad una “unione” in funzione generativa, nel primo caso, fra il toro e l’orsa? E dove sarebbe il significato trascendente di tale messaggio? E dove sistemerebbe l’uomo (perché è proprio del suo intimo essere che qui si discute) e la aspirazione più estrema del periglioso viaggio della sua anima? Più vicina all’orso o più vicina al toro, essendo cancellata la donna e dea, dal pannello da lui dipinto?
Detto ciò, aggiungiamo che risulta davvero astruso alle nostre capacità di lettura, il messaggio contenuto nel sigillo, fermo restando che il professor Hodder, considerando il sigillo quale semplice strumento per imprimere disegni su pelli e tessuti, sembri non intravvederne alcuno. Ma, ove in esso fosse presente una qualche informazione (e certamente è così), intanto sembra essere indirizzata e nascere su un piano culturale ben diverso da quello in cui primeggia il concetto “dea-donna”. E poi, il sigillo risulta possedere una tipologia di “scrittura” molto difforme da quella simbologia continuamente presente in vari siti europei dell’epoca, che riproduce messaggi di civiltà cultuali vicini al senso generale dei caratteri fondanti di un elevato vivere. Reputiamo che, ove si desideri spodestare le “donne-dee” con il carico dei loro significativi attributi segnici, dal trono in cui sono state glorificate per decine di migliaia di anni, si dovrebbe sentire l’obbligo di fornire lo strumento per interpretare quelli presenti nel sigillo. Ove ciò non si faccia (a meno di fini reconditi dell’operazione sigillo), abbiamo semplicemente osservato la vacua conseguenza del tipico sasso gettato nello stagno, che pare muoverne solo la superficie.
Per gli anni successivi, e fino al 2008, circa le relazioni riportate sull’Anatolian Archaeology, non abbiamo alcun dato nuovo da rilevare in quanto al tema principale.
Però, v’è una formula importantissima, posta all’inizio della relazione del 2008, che il professor Hodder userà ogni anno a seguire per iniziare il suo racconto sulla stagione di scavi:
«Çatalhöyük era abitata, novemila anni fa, da una popolazione che raggiungeva le ottomila persone, le quali vivevano in una grande “città”. In essa non c’erano strade e la gente si muoveva sui terrazzi ed entrava nelle proprie case attraverso fori negli stessi. All’interno delle loro case la gente espresse un’arte meravigliosa attraverso dipinti, rilievi e sculture, sopravvissuti attraverso i millenni».
È la prima volta che, in tutti questi anni, l’Hodder, dichiara apertamente di accettare la antica opinione del Mellaart, rendendoci edotti circa la staticità delle sue opinioni, acquisite con gli studi sul lavoro del suo predecessore, che quindici anni di scavi ed analisi dei dati, compiuti da molte discipline, non sono riusciti a far defungere, ma saranno anzi fatte proprie dal mondo scientifico.
Anno 2010 – Ian Hodder, nella sua “season review” che introduce Archive Report, sostiene essere presenti alcune novità provenienti da lavori di studio dei dati accumulati. Per esempio, molti fra gli analisti pensano che le terre umide attorno a Çatalhöyük potrebbero non essere state così uniformi come si credeva, ma esservi state “sufficienti” chiazze secche da permettere una coltivazione di campi agricoli nelle vicinanze. Bene, appena entrando nel preciso significato dell’evidenziato “lemma”, desideriamo soltanto sapere se l’aggettivo qualificativo ha focalizzato il contenuto semantico dei nostri giorni o quello dell’antica Çatalhöyük. Ma, ricordiamo come il Fairbairn, otto anni prima, prospettasse questa ipotesi ma, ci parve, solo come ultima ratio. Infatti, sostenne come fosse fuori dalla logica, una tale impostazione dell’agricoltura da parte di una grandissima comunità. È chiaro come, nella generale dialettica che avvolge, da ogni lato, il tema Çatalhöyük, questa ipotesi tende a portare acqua al mulino di chi vede ancora il sito come ospitante una grande città. Sembra anche sintomatico che si dica ciò soltanto ora e non già nel 2002, quando il Fairbairn presentò la sua relazione. La reputiamo, anzi, a nostro modo di vedere, una molto disperata ricerca, di un qualche flebile sostegno all’idea che vede Çatalhöyük come una città. Così disperata, questa ultima pretesa, che anche se dovesse ritenersi totalmente valida, nulla toglierebbe al deciso rifiuto di una siffatta realtà, così violentemente manifestata da tutti gli altri insuperabili problemi. Problemi ai quali, pur di già numerosi, l’Hodder ne aggiunge perfino un ultimo.
Infatti, riguardo allo stato di salute degli individui, i cui resti sono stati analizzati, il professor Hodder e la squadra di bioarcheologi che collabora con lo stesso, si dimostrano sorpresi per il buono stato di salute generalmente riscontrato negli occupanti le sepolture di Çatalhöyük. Si dimostrano tanto più sorpresi, in quanto lo stato igienico del sito è risultato essere pessimo, sia per il denso ammasso di abitazioni circondate da grandi aree di rifiuti e letame, in cui è stata trovata materia fecale umana e animale sia per la dominante presenza di parassiti. Ricordiamo peraltro, come già i risultati delle analisi effettuate negli anni sessanta, stabilissero che gli individui sepolti a Çatalhöyük, avessero goduto di una buona salute.[6] E non è davvero il caso di manifestare sorpresa alcuna, dal momento che i resti analizzati, secondo il nostro modello, sono quelli di abitanti che avevano la loro stabile dimora in salubri lontani villaggi, che utilizzavano Çatalhöyük, soltanto come Luogo Santo per loro sepolcreti, soggiornando (per lo più) nelle cumbessias per pochissimi giorni l’anno.[7]
non una “insussistente città”, ma Grandioso
“Luogo Santo”, con santuari e cumbessìas pieni di sepolture[1]
Nel percorso intrapreso per approfondire le modalità d’incontro ed i modelli di scambio, fra le società della Sardegna Paleolitica e Danubiana e nel cercare una comprensibile connotazione alla nascita e sviluppo del “dio femminile”, ci siamo imbattuti nei ritrovamenti straordinari del sito meso-neolitico di Çatalhöyük, nell’Anatolia centro meridionale.
Decidiamo di parlarne estesamente, causa la differenza abissale che abbiamo visto ergersi fra le determinazioni degli specialisti e le nostre conclusioni, queste, basate sulla semplice coerenza di un ragionamento che si dipana attraverso l’esame dei crudi dati da essi messi in luce.
I cumuli, Ovest (a sinistra) ed Est (il più alto), di Çatalhöyük visti da nord, sull’altopiano anatolico che si distende a 1000 metri, a circa km. 50 a sud-est di Konya. Da J. Mellaart, 1967.
J. Mellaart, il primo scavatore del sito, nei primi anni sessanta del secolo appena passato, definì l’avvicendamento dei dodici livelli di costruzioni (il cui deposito si rileva essere profondo cinquanta piedi), andatisi evolvendo (com’egli dice) nell’arco di ottocento anni (circa dal 6500 al 5700 a.C.), come le fasi di una molto ben sviluppata città. Inoltre, asserì essere «la ricchezza dei materiali prodotti dalla città, irraggiungibile per ogni altro sito neolitico», dandone anche una connotazione sociale molto evoluta[2]. Gli scavi, da lui prodotti, portarono alla luce un’area di circa 4000 m2 a fronte di una estensione del sito, che fu chiamato East Mound, di oltre 12 ha.
Le costruzioni da lui scavate e lo studio di ogni singolo contesto delle stesse, portò l’archeologo inglese a declamare, relativamente a quelle analizzate, la presenza, negli strati dal II al X, di un totale di 63 templi o santuari, contro un totale di 103 abitazioni. Tali costruzioni, elevate con l’ausilio di mattoni squadrati seccati al sole ed aventi misure standardizzate, avevano un accesso dal terrazzo, attraverso un pertugio a sezione quadra e per il mezzo di una scala a pioli che dava nella grande sala in prossimità del forno ed accanto al focolare. Sempre all’interno delle costruzioni, al di sotto di piattaforme addossate alle pareti, aventi funzione di letto e divano, erano sepolti i defunti, sia nei santuari che nelle abitazioni.
Le dimensioni delle costruzioni erano paragonabili, pur rimanendo i santuari mediamente più grandi delle abitazioni. Ma la caratteristica più saliente di questi ambienti risultò essere il meraviglioso arredo, essendo però i templi molto più generosamente decorati delle abitazioni, soprattutto con pareti dipinte con soggetti come tappeti carichi di simbolismi, avvoltoi, figure umane; rilievi in stucco di “dee”/“donne” partorienti e non, animali; esposizione di bucrani, file di corna, teste di animali ecc.
Sorge ora, spontanea, la seguente pratica considerazione.
Come è possibile che una città sia costruita con un numero di abitazioni appena doppio, rispetto al numero dei templi?
Sulla base di tale interrogativo scopriamo come i nostri dubbi siano amplificati da altri rilievi che fuoriescono dalla lettura delle relazioni e testi del Mellaart, il quale ebbe anche a manifestare perplessità profonde in merito al contesto così come era andato delineandosi: «In più, uno si aspetterebbe che la più antica occupazione del sito venisse realizzata il più vicino possibile al fiume». Come detto, a quella sua, aggiungiamo altre valutazioni.
Si riscontra che nella supposta città:
- i templi siano la metà delle abitazioni
- manchino i pozzi e le fonti, i quali sono, non solo necessari, ma assolutamente indispensabili per la sopravvivenza di una comunità
- mancano laboratori ed officine, artigianali o industriali, per la produzione di tutte le migliaia di utensili finemente lavorati in ossidiana, oltre a quelli atti a creare armi, gioielli, vasi, tessuti, ceste, collane, prodotti della falegnameria, specchi, eccetera, trovati in abbondanza nel sito
- mancano le montagne di rifiuti, generati dalla fabbricazione dei prodotti appena menzionati, in tanti secoli di vita della località
- mancano i pubblici edifici, necessari per il coordinamento di un così elevato vivere civile
- mancano le strade ed i vicoli
- mancano i ricoveri per gli animali
- la irrazionale porta di ingresso non permette di accettare le abitazioni come vissute 24 ore al giorno per 365 giorni ogni anno
- le aperture per accedere alle dispense erano poco alte, costringendo le persone ad accedervi strisciando, la qual cosa non è funzionale se pensata al vivere d’ogni giorno, ma sopportabile in sporadiche occasioni[3]
- il conteggio dei defunti è sottostimato rispetto al numero di individui presumibilmente vissuti in un dato periodo
- i resti dei defunti rinvenuti, appartengono, per lo più, a donne e bambini, mentre sono pochi gli uomini
- il processo di scarnificazione delle membra dei defunti raggiungeva livelli, così casualmente disomogenei, da poterli ritenere impensabili, in una società così perfettamente organizzata.
Bene, tutta questa serie di insormontabili ostacoli, ci fanno propendere verso una definizione, del sito scavato dal Mellaart, che certamente non può essere quella racchiusa nel vocabolo “città”.
Di già, l’archeologo, aveva intrapreso una via per smentire sé stesso, dichiarando che “della vasta superficie del sito, soltanto un’area di un acro del quartiere sacerdotale era stata scavata”.
Ma, osserviamo, un quartiere sacerdotale, in quanto “quartiere”, è pur sempre abitato (tutto l’anno) ed ha pertanto assoluta necessità almeno di strade e d’una fonte cui attingere l’acqua, necessaria a tutti i bisogni della vita quotidiana ed anche, forse, ai riti della sfera sacrale. Quindi, ci pare ancora impossibile usare la voce “quartiere”, perché siamo in assenza di un requisito indispensabile per la sopravvivenza e quindi la qualifica semantica, di un qualsivoglia “quartiere”.
Noi abbiamo pensato ad un centro o santuario, adibito anche a luogo di sepoltura, ma abitato per brevi periodi di tre, nove giorni, saltuariamente, in occasione di ricorrenze legate alla vita naturale e di poi, a quella trascendente (solstizi, equinozi), alla deposizione per la scarnificazione (che in alcuni casi rivela una piětās molto articolata), alla sepoltura, che racconta di modelli attuativi multipli e di antichissima tradizione, se è vero che il Mellaart vada ad affermare come, lungo tutto il periodo di frequentazione del sito, non si ravvisino cambiamenti nelle abitudini di sepoltura. Probabilmente, il Luogo poteva essere abitato, nella sua interezza, solo nelle circostanze celebrative cicliche e nel momento dedicato alla manutenzione ed imbiancatura delle costruzioni (individuato dall’archeologo nel periodo più caldo dell’anno), mentre in occasione delle altre due possibilità (scarnificazione e sepoltura), la presenza si sarebbe potuta limitare ai soli congiunti del defunto ed agli addetti alla liturgia del santuario di appartenenza della famiglia. In tutti questi casi, l’acqua necessaria per il breve periodo, sarebbe stata portata seco dai partecipanti, in modo organizzato, i quali all’occorrenza avrebbero potuto recarsi di nuovo al pozzo più vicino (anche se distante diversi chilometri) per attingere il liquido, necessario (a quanto pare) anche per la preparazione in loco del pane quale mezzo rituale.
Ricostruzione di pittura parietale rinvenuta nel santuario 14 del livello VII, che riproduce in primo piano la pianta dei santuari e cumbessias, con all'orizzonte l'eruzione del cono destro del vulcano dell'Hasan Dag. Una straordinaria immagine di un grande artista di novemila anni fa. Da J. Mellaart 1967.
Naturalmente in questa ottica non vi sarebbe stato bisogno di una sorgente o pozzo in loco e nemmeno di strade, perché i servizi venivano officiati al chiuso di templi e cumbessias. E non vi sarebbe stata la necessità di tutte le altre incombenze elencate appena supra.
Questo modello, da noi ipotizzato, sarebbe valido ove la vera “città” si trovasse molto distante dal cumulo una parte del quale fu oggetto di scavo. Ma sarebbe vieppiù valido ove altro scavo in un’area distante dalla precedente (ma sempre nell’East Mound), desse gli stessi risultati insediativi desunti dal Mellaart, in merito alla tipologia, destinazione e numero delle costruzioni. (vedasi Anno 1995).
Certo, abbiamo pensato di prim’acchito che la misteriosa città (cui il Mellaart si riferiva) di riferimento, fosse quella che l’archeologo definisce Çatalhöyük Ovest o West Mound, ma lo stesso ci ha sempre detto che tale insediamento sembri essere abitato in data successiva all’abbandono del Luogo Santo. (vedasi Anno 2000). E, d’altro canto, l’aggiornamento delle nostre conoscenze, ci ha messo nella condizione di prendere in considerazione l’ipotesi che, primi abitatori del West Mound (early Chalcolthic), fossero genti in fuga dal secondo diluvio universale.
Quindi si deve cercare la “città” in un insediamento molto distante. Ma, pare che non vi siano stati (o non siano stati ancora scoperti) insediamenti abitativi così estesi (alcuni ettari) da poter essere definiti “città”, in un raggio, diciamo di dieci, massimo venti chilometri. Bene, se la situazione descritta può essere plausibilmente accettabile, significa che è errato cercare un grande insediamento umano di vari ettari.
Infatti, può essere credibile che ad alimentare spezzoni di vita, celebrazione di riti, funzioni funebri e feste nel nostro Luogo Santo, anzi di tutto il cumulo di oltre dodici ettari, fosse una largamente sparsa comunità, disseminata lungo le valli dei non lontani corsi d’acqua, abitante decine e decine di villaggi neolitici ed avente in comune l’appartenenza ad una civiltà basata sulla dominanza della donna creatrice di vita e padrona esclusiva della “casa”, ove si definivano e manifestavano, tutte le occupazioni della comunità, come evidenziato in altra sede dal professor Hodder. Tale insieme sociale aveva al centro del proprio meccanismo cultuale, la “donna fatta dea”, affiancata dai simboli rappresentanti forme rigenerative come bucrani, tori, teschi umani, o simboli del trapasso come avvoltoi, oltre segni del divenire come triangoli, mani, rombi, acqua che scorre, secondo una precisa nomenclatura. Con tale decifrazione, diventano credibili tutte le pregiudiziali che ostavano all’accoglimento del quadro generalmente accettato: “la città”. Infatti, in questa ottica, esse risultano tutte fruibili verso il riconoscimento delle innumeri comunità abitative disseminate ben lontano:
- esse avranno un numero di templi, atti alla quotidiana devozione, molto esiguo rispetto alle abitazioni
- i pozzi e le fonti sono in esse certamente presenti
- laboratori ed officine saranno rappresentati nei villaggi in funzione della attitudine del luogo, della esperienza degli artigiani e degli intendimenti di sviluppo d’ogni singola comunità
- i pubblici edifici saranno limitati alle necessità ed alla complessità di ciascun piccolo insieme sociale
- strade e ricoveri per le bestie saranno quelli ritenuti architettonicamente e tradizionalmente necessari
- la porta d’ingresso alle abitazioni sarà normalmente a livello, o quasi, del piano stradale
- il conteggio dei defunti sarebbe facilmente arguibile
- ed inoltre, possiamo aggiungere che, se il processo di scarnificazione raggiungeva livelli disparati (se accettiamo l’assunto dell’Autore, secondo il quale la sepoltura era posta in essere una sola volta l’anno), di ciò poteva ben essere causa, proprio la lontananza dei villaggi.
Mentre, in relazione alla rappresentanza dei defunti nelle sepolture, è doverosa una qualche considerazione.
Da quanto si evince dai dati presentati negli anni sessanta, sembra che non tutti gli appartenenti alla comunità di riferimento (qualunque sia stata) fossero seppelliti nel sacro sito. Non tutti gli uomini, e questo è pacificamente rimarcato dall’autore, ma neanche tutte le donne e i bambini sembrano poter accedere ad una sepoltura nel luogo sacro. Ammettiamo, tuttavia, che di questa ultima categoria sia davvero difficile fare (al momento) anche una azzardata analisi, non avendosi alcuna statistica in merito. Anzi sembra non sia dato sapere se questi giovani appartenessero ad entrambi i sessi o, come preferiamo credere e dichiarare, fossero tutte delle giovani novizie avviate al sacerdozio.
Bene, facendo appello al buon senso ed in considerazione dell’elevato numero di templi o santuari, si potrebbe credere che ciascuno di essi venisse edificato da una famiglia o clan del villaggio. I componenti di tale famiglia o clan, avrebbero anche provveduto a fornire al loro tempio il personale necessario ad officiare tutte le funzioni connesse con le varie esigenze: esso era quasi certamente formato dalle sacerdotesse e dalle giovanette necessarie a completare l’organico in ordine all’espletamento dei vari uffici. Inoltre, pare naturale credere, come fece anche il Mellaart, che le sacerdotesse godessero del privilegio d’essere sepolte nel tempio della loro famiglia. Di tale Ricostruzione di santuario o cumbessìa,
possibilità, pensiamo noi, potettero godere anche le novizie da Mellaart 1967.
e forse gli infanti (ove un tristo destino facesse defungere prematuramente alcuni appartenenti alle due categorie). Ma, cosa più importante, veniva seppellito nel tempio anche il capo del clan (may have been reserved for special individuals only, come dice l’archeologo), quasi sempre accompagnato da doni più ricchi di quelli trovati nelle abitazioni o cumbessìas. Non si può escludere che il tempio accogliesse anche le spoglie di un qualche individuo molto particolare del villaggio, come un eroe (ma non di guerra, a sentire della mancanza di offese riscontrata sugli scheletri). I clan e le famiglie avrebbero costruito, a fianco del loro tempio, anche la loro saltuaria abitazione, la cumbessìa, che potesse accoglierne i rappresentanti che fossero venuti a trascorrere quei brevi periodi legati alle cerimonie per glorificare la “dea”/“donna”, ed alle funzioni connesse al rito mortuario. Nella cumbessìa venivano forse seppelliti i capi delle famiglie e forse i componenti delle stesse. È facile credere che i villaggi più potenti ed emancipati, dal punto di vista della ricchezza prodotta, congiunta ad una elevata quantità di abitanti, potessero edificare più di una cumbessìa.
Risulta altrettanto proponibile che esistessero anche dei villaggi (come sempre accade nello svolgersi delle umane vicende) che, per qualche ragione, non avessero risorse sufficienti ad edificare le due costruzioni nel luogo sacro, ma non potessero sottrarsi all’obbligo morale di edificare almeno il santuario del villaggio, sia pur arredato in modo parsimonioso, deponendovi le spoglie del capo famiglia e degli altri aventi diritto, accompagnate da doni che ne denunciavano lo stato. Come, infatti, ricorda lo scavatore: «persino le sepolture in un certo numero di santuari erano ben lungi dal manifestare un ricco corredo, ma erano piuttosto emarginate sul confine delle povertà».
In questa ottica, siamo ora in grado di conferire razionalità alla porta di accesso alle costruzioni: essa era sistemata sulla copertura, non certo quale manifestazione difensiva contro eventuali nemici, (che ben facilmente avrebbero potuto accedere al terrazzo con delle scale e prendere, con la sola arma del fumo, tutti gli eventuali abitanti rintanati al di sotto), ma per tenere lontani quegli animali di una certa taglia, che venissero attratti dal sottile odore dei resti dei defunti: per tali animali, non avrebbe rappresentato ostacolo alcuno, la porta di accesso di una tradizionale abitazione.
Rimane da considerare che, il mantenere in vita quel complesso esito d’antichissima provenienza, così ben radicato nel più profondo dei ricordi incancellabili, pur se appagante il principio vitale di quegli evoluti esseri umani, era carico di pesanti adempimenti materiali, in ordine sia alla manutenzione annuale di interni ed esterni sia alla totale riedificazione delle costruzioni, nelle varie occasioni in cui il fuoco andò a distruggerle completamente. E, questa, valga quale semplice considerazione di carattere generale, atta a meglio circostanziare la forte volontà nel tenere in vita un processo di nobilitazione spirituale e identitaria di quelle popolazioni. Ma, deve anche dirsi, altrimenti il quadro non sarebbe completo, della pesantezza fisica circa l’espletamento della complessa funzione mortuaria. All’atto del defungere, dovevano comunque compiersi certi rituali nell’abitazione del defunto, quali pianti, lamenti e canti funebri, lavaggio, vestizione, consumazione del pasto. Rituali dettati non tanto, banalmente, dalla tradizione quanto, parrebbe, dalla forte volontà di tenere vivo un legame con un passato grandioso da non dimenticare, passato che sarebbe alfine doveroso andare a investigare, ma che nessuna delle tante altisonanti istituzioni ha avuto la capacità culturale di porsi come obiettivo, finora. Dopo l’insieme di formule ed atti propri del rito, dovevasi intraprendere il lungo viaggio verso il tempio/sepolcreto, con al seguito tutti i rappresentanti della comunità, comprese le sacerdotesse e con i personaggi addetti a predisporre le spoglie per la scarnificazione, in un contesto spaziale ove di già altri defunti erano presenti. Anche questa incombenza doveva essere corredata dei suoi precisi canoni: intanto doveva esistere una sorta di marcatura (o luogo di proprietà, ma propendiamo per la prima indicazione) che permettesse ai congiunti, in ogni momento, di individuare il proprio defunto; inoltre era necessario un controllo del livello raggiunto dal processo; pare anche che in alcuni casi si procedesse ad asportare il teschio del defunto per rituali funerari che avevano luogo nei santuari; era in vita anche la consuetudine di colorare in rosso-ocra, cinabro, blu e verde alcune ossa dei defunti, secondo una codifica che ci sfugge per lo più. Quando il processo di privazione delle parti molli era completato, lo scheletro veniva sottoposto ad una serie di riti che portavano alla sepoltura, al di sotto di una delle piattaforme, nel tempio o nella cumbessia.
Come si può facilmente arguire, tutte quante le suddette operazioni rappresentavano certo un impegno di tempo che, se possiamo definire non indifferente (nell’economia di una vita vissuta intensamente) per una parte della popolazione, definiamo certamente al di fuori della portata, di una certa altra parte della intiera popolazione della nutrita schiera dei villaggi in cui si osservava quella complessa pratica cultuale. Ecco, per quanto ci consta, spiegato il motivo per cui l’Autore definisce sottostimato, il conteggio dei defunti rispetto al numero di individui presumibilmente vissuti in un dato periodo. La parte meno abbiente di molte di quelle comunità, non portava i propri defunti nella ambita, costosissima, lontana area templare e sepolcrale.
Bene, trent’anni dopo l’esaltante esperienza del Mellaart, nel 1993, sono di nuovo iniziati gli scavi a Çatalhöyük. Il direttore, Ian Hodder dell’Università di Cambridge, inizia nel 1995, sulla rivista Anatolian Archaeology, la pubblicazione di relazioni annuali sulle attività svolte nel sito, dalle quali estrarremo quelle parti che troveremo si confacciano alla tematica quì evidenziata. Il professor Hodder, inizia la sua avventura conoscendo molto bene il lavoro del suo predecessore (alle cui lezioni, all’università di Londra, aveva assistito da studente) le cui conclusioni ha fatto proprie, ma si aspetta le più grandi novità in merito alle domande cui fornire una risposta soddisfacente.
Anno 1995 - Sulla base di quanto osservato, nella sua relazione annuale, lo scavatore sostiene di già che i dati ricavati «dimostrano che non c’è nessuna prova di una “elite” rituale concentrata in una parte del sito». Questa sua dichiarazione, mentre risponde ad una nostra domanda precisa, sembra naturalmente dare ampio credito all’esistenza, su tutto il cumulo di 12 ha (East Mound), di un modello “insediativo” identico a quello già scavato dal Mellaart, nei soli 4000 m2.
Anno 1996 – In un’area in cui operò il Mellaart (circa livello VII), alcuni scavi hanno ora posto in luce come, in alcuni muri divisori fra le abitazioni, vi fossero degli “ingressi bloccati” a posteriori. Ciò fa esclamare all’Hodder: «tutto questo suggerisce che, almeno a questi livelli più bassi, l’ingresso dal terrazzo non era il solo possibile modo di accedere alle abitazioni o templi». Noi non ci sentiamo d’accordo, perché gli elementi da lui richiamati sono “porte di passaggio” tra due edifici adiacenti, non da identificarsi come delle vere e proprie porte di ingresso dall’esterno, ma come dei semplici passaggi da un ambiente ad un altro, in livelli in cui cumbessìas e templi si estendevano su una superficie più ampia. In un solo caso riconosciamo una certa validità alla sua affermazione: «un’altra chiusura (another blocking) fu vista nella parete sud del tempio 8». Infatti, tale parete sud, si affaccia verso una corte, che peraltro non può essere definita un “esterno” in senso completo, perché tale ambiente risulta in genere circoscritto dalle alte pareti delle costruzioni. Tale “porta” non può pertanto sostituirsi, nella sua funzione fondamentale di modulo di accesso e uscita dall’abitazione, a quella indispensabile del terrazzo.
Anno 1998 – Qui il professor Hodder sembra dare altro supporto al nostro modello.
Infatti comincia a chiedersi, certo allarmato, come fosse possibile vivere nell’angustia di simili ambienti. Ma non è in grado però di darsi una spiegazione appena ragionevole, perché di fatto non è ancora riuscito ad astrarsi dai legami mentali seguiti al suo giovanile imprinting, che lo hanno condizionato in decenni di studio. Il raggiungimento di una visuale critica, sarebbe la necessaria premessa per pensare ad una diversa possibilità d’uso del sito.
L’archeologo, seguendo la impostazione che vede in Çatalhöyük una grande città, intravvede un minuto codice sociale atto a sostenere e guidare la comunità persino nei movimenti e gesti all’interno di templi ed abitazioni. Ma, proprio queste sue considerazioni sulla sensazione della presenza di un codice comportamentale, fortifica la nostra convinzione che l’area che sta valutando, sia stata semplicemente un “luogo sacro”: solo in tale ambito ci si deve attenere a delle ferree regole, rigidamente ripetitive, per il rispetto che si deve al luogo!
Poi, concludendo il suo pensare, egli sostiene: «Infatti, sebbene Çatalhöyük sia spesso definita una città o una grande città, in realtà, in termini organizzativi, è un grandissimo villaggio». Ebbene, l’Hodder, senza averne ancora una chiara visione, ha tuttavia intuito il livello di organizzazione sociale della comunità che frequenta il “cumulo”. Inoltre, per corroborare il declassamento di Çatalhöyük da città a villaggio, sostiene e spiega, come tutto faccia pensare al villaggio: il livello di lavorazione è pari a quello domestico; i materiali usati nelle costruzioni sono diversi, cioè non seguono uno standard; il magazzinaggio del cibo avviene su scala domestica. Afferma che, anche la maggior parte della produzione di ossidiana abbia luogo su scala domestica: ma qui non fornisce alcuna notizia di scarti di lavorazione del vetro vulcanico, che avrebbero dovuto essere ben numerosi, a giudicare dal gran numero di nicchie e depositi contenenti “pieces” ed anche “blades”, per non parlare degli specchi. È ancora forte in noi il ricordo del disappunto esternato dal Mellaart, dalle pagine di Scientific American[4], in cui rammenta come, nelle circa duecento costruzioni di Çatalhöyük dallo stesso scavate, siano stati trovati migliaia di utensili in ossidiana finemente lavorati, ma solo due scatoline di schegge; migliaia di utensili in osso, ma non i mucchi di scarti o frantumi, generati nella lavorazione degli stessi. Ecco, il signor Hodder dovrebbe rispondere e giustificare l’assenza di tutte le grandissime quantità di scarti della lavorazione. Pare infatti evidente come, anche una lavorazione su scala domestica, avrebbe dovuto lasciare montagne di scarti nel periodo di molti secoli. Montagne di scarti che avrebbero dovuto essere commisurate: alle montagne di escrementi umani ed animali, alle grandi consistenze di rifiuti derivanti dai pasti e dalla maniacale pulizia dei santuari e cumbessias, alle montagne di detriti di ceneri e carboni, derivanti da una frequentazione del sito, appena periodica, ma lunga circa un millennio (perché i tempi ricavati dal Mellaart si sono ora allungati e nel prosieguo delle analisi, si raddoppieranno perfino).
Anno 1999 – Viene effettuato un sondaggio che arriva alla base del cumulo ove si trova la bianca marna servita per produrre calce per intonaco per le costruzioni del luogo. Nei livelli più antichi, XI e XII si indovinano strati di stalle per animali erbivori (capre e pecore), nonché segni di attività di scheggiatura dell’ossidiana e produzione di grani d’osso. Nostra considerazione: si trattò forse di una fase di “prova di insediamento” (con l’accezione più estesa del vocabolo), che non andò in porto come tale, lasciando la strada, per qualche motivo, all’idea del luogo santo. Il livello XII fu datato, sulla base di semi bruciati di grano, Triticum/Scirpus, a circa il 9000 BP cal[5].
Anno 2000 – Nel West Mound (il cumulo di fianco a quello East, ove il Mellaart pensava si fossero trasferiti gli abitanti che abbandonarono il livello I di quest’ultimo) si è prodotto uno scavo di 12x6 metri, entro cui sono stati scoperti residui di quattro/cinque livelli di occupazione sottostanti sepolture del tardo romano e primo bizantino. L’architettura è molto diversa da quella dell’East Mound. I muri sono sempre fatti con mattoni di fango, ma sono doppi e generamente non intonacati, così come le pavimentazioni. Le costruzioni sembrano seguire una pianta oblunga. Ritrovamenti: residui di materiale botanico mostrano qualche differenza con l’Est Mound, con granaglie di dimensioni più grandi e una grande varietà di organismi; similmente i residui di animali quali pecore e capre paiono sempre più presenti, con assenza di animali selvatici. Riguardo la pianta delle costruzioni, esse sembrano non avere riscontri in tutta l’Anatolia del periodo Calcolitico. Certo il nuovo insediamento non poté essere il seguito di quello East, se pur appena dismesso, come ipotizzato dal Mellaart, così come non poté essere la dimora quotidiana della moltitudine di genti che frequentavano Çatalhöyük, come noi abbiamo supposto.
Anno 2001 - Studio dei dati. Ci si è concentrati per esempio nello stabilire quale fosse il paesaggio del sito, circa novemila anni fa. Risulta che dovettero esservi dei grossi diluvi stagionali e terreni umidi, proprio nel luogo in cui insisteva Çatalhöyük. V’è una eco di ciò nel ritrovamento di un gran numero di uccelli acquatici sul posto. Fu quindi sorprendente scoprire che i fitoliti dei cereali, indicassero una coltivazione in terreno secco: a quel tempo, infatti, le più vicine terre secche, si trovavano a 5-10 chilometri di distanza.
Ebbene sì, questa è una conferma scientifica che avvia il nostro modello, per le genti che frequentavano il sito di Çatalhöyük, ad essere sempre più accettabile. Infatti, noi pensavamo a una comunità di villaggi sparsi in un raggio di 10-20 chilometri dal sito. Il signor Hodder conferisce, se possibile, una ancor maggiore solennità alla precedente sua dichiarazione, affermando che la maggior parte degli specialisti, sono d’accordo sul fatto che il sito sarebbe stato meglio sistemato su per il locale sistema di fiumi, verso territori più alti e secchi.
Anno 2002 – Una ricerca di archeobotanica, condotta da A. Fairbairn (dell’Università Nazionale di Camberra) anche sui semi carbonizzati raccolti nella campagna del Mellaart del 1962, ha confermato come la comunità fosse pesantemente dipendente dall’agricoltura per cibo (e foraggio), pur restando incerta la localizzazione dei campi del raccolto, a causa della ricostruzione del paleoambiente che rende impossibile la pratica di una tradizionale agricoltura proprio nel luogo ove è sistemato il cumulo. Lo studioso, che ha memorizzato il modello pensato dal Mellaart, pensa altresì, che con una tale grande popolazione da sfamare e con terre praticabili presenti solo in aree sopraelevate, una agricoltura fatta a macchia di leopardo non incontrerebbe una accettabile logica agricola. Inoltre, il Fairbairn si ritiene sfortunato per non aver trovato magazzini del raccolto, come si conviene ad una comunità agricola che riserva, alla semina ventura, una parte di esso. Ma, noi desideriamo tranquillizzarlo su questo punto, infatti: era semplicemente impossibile che il suo desiderio si realizzasse, dal momento che Çatalhöyük non era una città vissuta, ma nemmeno un villaggio vissuto. I magazzini del grano riservato alla semina esistevano eccome! Ma erano dislocati molti chilometri lontano, nei tanti villaggi, abitati dagli occasionali frequentatori del luogo santo di Çatalhöyük.
Relativamente all’anno 2005, non possiamo esimerci dal riportare le “New finds and new interpretations at Çatalhöyük” di Ian Hodder. Il conduttore degli scavi mette, forse, una esagerata enfasi nell’introdurre il ritrovamento di un sigillo, di cm. 5x7, che definisce “rappresentare un animale, probabilmente un orso”. La figura nel sigillo ricorda, in una certa misura, il rilievo trovato dal Mellaart nel tempio 23 del livello VII e da lui definito rappresentare una “dea gravida”, raffigurata con le braccia sollevate, con gli arti inferiori posti allo stesso modo ed avente quattro cerchi concentrici con punto centrale, all’altezza dell’ombelico. Qui la nuova interpretazione dell’Hodder: «Così è probabile che i rilievi con le braccia e le gambe rivolti in alto non siano dee ma orsi». Siccome, aggiunge, dipingere animali, come i leopardi nelle case, è normale a Çatalhöyük, non sarebbe sorprendente se trovassimo un orso. E continua: “Per lungo tempo si è ritenuto che alcune forme di “dea madre” fossero parte centrale del simbolismo di Çatalhöyük, e questi punti di vista erano in parte basati sulla interpretazione dei rilievi con le braccia rivolte in su come riferiti a una donna. Mentre rimane possibile che le figure siano “orsi madre” e rappresentative di una divinità femminile, c’è ora poca evidenza che esse siano delle donne davvero”.
Orbene, noi siamo in totale disaccordo con il grande Professore:
1)- la figurina del sigillo, così come riportato su Anatolian Archaeology, può rimandare a tanti animali, ma certamente non ad un orso: infatti, questo animale ha una testa, rapportata alle proporzioni che risultano dalla figurina, molto più voluminosa e lunga, il muso in particolare è molto allungato, l’occhio è sempre piccolo, l’orecchio è di modeste dimensioni rispetto alla testa, inoltre ha cinque artigli. Tutto ciò non si riscontra nel sigillo. Ci sembra anche (forse) non rinvenire la necessaria articolazione plantigrada negli arti inferiori della figurina.
2)- il rilievo murale del Mellaart, crediamo trovi meraviglioso accomodamento artistico nella definizione “dea gravida” (per noi anche “donna gravida”). Infatti, il corpo di quella che qui ci sembra proprio la “donna dea”, è interamente ricoperto di messaggi simbolici tipicamente appartenenti alla terminologia della Madre Dea Donna Incinta. Essi insistono sia sulle pareti dei templi e delle tombe, che propriamente sul corpo e sul ventre della Dea, come in questo caso. La serie di losanghe con punto centrale, che si trovano perpendicolari dalla testa all’ombelico, rappresentano nel loro insieme una colonna della vita per eccellenza, stante il loro intrinseco valore di segni della fecondità. Esse sono poste anche una dentro l’altra e con punto centrale, significanti l’utero ed il seme al suo interno, pronti a generare la vita. Altrettanto dicasi del motivo, in evidenza prorompente, posto sull’ombelico: quattro cerchi concentrici con, al centro, un punto, quasi a voler manifestare la concentrazione della potenza creativa della Donna e della Dea.
D’altro canto, non si può affatto dimenticare come le manifestazioni artistiche incentrate sulla glorificazione delle caratteristiche procreative delle deità e degli esseri, nell’accezione più estesa di questo ultimo vocabolo, siano quasi sempre concentrate su una base (o supporto) dalle caratteristiche inconfondibilmente antropomorfiche. Pertanto, togliere alla “pregnant goddes” del tempio 23, la sua fondamentale caratteristica di “donna”, ci sembra quanto mai azzardato dal punto di vista meramente interpretativo della informazione contenuta, parendoci anche (nel caso ricorra questa possibilità) un maldestro e veramente insufficiente tentativo di adire una nuova via (o moda) esegetica.
Inoltre, se il signor Hodder si sente di affermare: «Così è probabile che i rilievi con le braccia e le gambe rivolti in alto non siano dee ma orsi», dovrebbe spiegare cosa stiano a fare le numerose teste di toro e teste di ariete e bucrani, sistemate esattamente al di sotto delle raffigurazioni ch’egli definisce di orsa. Crede egli forse ad una “unione” in funzione generativa, nel primo caso, fra il toro e l’orsa? E dove sarebbe il significato trascendente di tale messaggio? E dove sistemerebbe l’uomo (perché è proprio del suo intimo essere che qui si discute) e la aspirazione più estrema del periglioso viaggio della sua anima? Più vicina all’orso o più vicina al toro, essendo cancellata la donna e dea, dal pannello da lui dipinto?
Detto ciò, aggiungiamo che risulta davvero astruso alle nostre capacità di lettura, il messaggio contenuto nel sigillo, fermo restando che il professor Hodder, considerando il sigillo quale semplice strumento per imprimere disegni su pelli e tessuti, sembri non intravvederne alcuno. Ma, ove in esso fosse presente una qualche informazione (e certamente è così), intanto sembra essere indirizzata e nascere su un piano culturale ben diverso da quello in cui primeggia il concetto “dea-donna”. E poi, il sigillo risulta possedere una tipologia di “scrittura” molto difforme da quella simbologia continuamente presente in vari siti europei dell’epoca, che riproduce messaggi di civiltà cultuali vicini al senso generale dei caratteri fondanti di un elevato vivere. Reputiamo che, ove si desideri spodestare le “donne-dee” con il carico dei loro significativi attributi segnici, dal trono in cui sono state glorificate per decine di migliaia di anni, si dovrebbe sentire l’obbligo di fornire lo strumento per interpretare quelli presenti nel sigillo. Ove ciò non si faccia (a meno di fini reconditi dell’operazione sigillo), abbiamo semplicemente osservato la vacua conseguenza del tipico sasso gettato nello stagno, che pare muoverne solo la superficie.
Per gli anni successivi, e fino al 2008, circa le relazioni riportate sull’Anatolian Archaeology, non abbiamo alcun dato nuovo da rilevare in quanto al tema principale.
Però, v’è una formula importantissima, posta all’inizio della relazione del 2008, che il professor Hodder userà ogni anno a seguire per iniziare il suo racconto sulla stagione di scavi:
«Çatalhöyük era abitata, novemila anni fa, da una popolazione che raggiungeva le ottomila persone, le quali vivevano in una grande “città”. In essa non c’erano strade e la gente si muoveva sui terrazzi ed entrava nelle proprie case attraverso fori negli stessi. All’interno delle loro case la gente espresse un’arte meravigliosa attraverso dipinti, rilievi e sculture, sopravvissuti attraverso i millenni».
È la prima volta che, in tutti questi anni, l’Hodder, dichiara apertamente di accettare la antica opinione del Mellaart, rendendoci edotti circa la staticità delle sue opinioni, acquisite con gli studi sul lavoro del suo predecessore, che quindici anni di scavi ed analisi dei dati, compiuti da molte discipline, non sono riusciti a far defungere, ma saranno anzi fatte proprie dal mondo scientifico.
Anno 2010 – Ian Hodder, nella sua “season review” che introduce Archive Report, sostiene essere presenti alcune novità provenienti da lavori di studio dei dati accumulati. Per esempio, molti fra gli analisti pensano che le terre umide attorno a Çatalhöyük potrebbero non essere state così uniformi come si credeva, ma esservi state “sufficienti” chiazze secche da permettere una coltivazione di campi agricoli nelle vicinanze. Bene, appena entrando nel preciso significato dell’evidenziato “lemma”, desideriamo soltanto sapere se l’aggettivo qualificativo ha focalizzato il contenuto semantico dei nostri giorni o quello dell’antica Çatalhöyük. Ma, ricordiamo come il Fairbairn, otto anni prima, prospettasse questa ipotesi ma, ci parve, solo come ultima ratio. Infatti, sostenne come fosse fuori dalla logica, una tale impostazione dell’agricoltura da parte di una grandissima comunità. È chiaro come, nella generale dialettica che avvolge, da ogni lato, il tema Çatalhöyük, questa ipotesi tende a portare acqua al mulino di chi vede ancora il sito come ospitante una grande città. Sembra anche sintomatico che si dica ciò soltanto ora e non già nel 2002, quando il Fairbairn presentò la sua relazione. La reputiamo, anzi, a nostro modo di vedere, una molto disperata ricerca, di un qualche flebile sostegno all’idea che vede Çatalhöyük come una città. Così disperata, questa ultima pretesa, che anche se dovesse ritenersi totalmente valida, nulla toglierebbe al deciso rifiuto di una siffatta realtà, così violentemente manifestata da tutti gli altri insuperabili problemi. Problemi ai quali, pur di già numerosi, l’Hodder ne aggiunge perfino un ultimo.
Infatti, riguardo allo stato di salute degli individui, i cui resti sono stati analizzati, il professor Hodder e la squadra di bioarcheologi che collabora con lo stesso, si dimostrano sorpresi per il buono stato di salute generalmente riscontrato negli occupanti le sepolture di Çatalhöyük. Si dimostrano tanto più sorpresi, in quanto lo stato igienico del sito è risultato essere pessimo, sia per il denso ammasso di abitazioni circondate da grandi aree di rifiuti e letame, in cui è stata trovata materia fecale umana e animale sia per la dominante presenza di parassiti. Ricordiamo peraltro, come già i risultati delle analisi effettuate negli anni sessanta, stabilissero che gli individui sepolti a Çatalhöyük, avessero goduto di una buona salute.[6] E non è davvero il caso di manifestare sorpresa alcuna, dal momento che i resti analizzati, secondo il nostro modello, sono quelli di abitanti che avevano la loro stabile dimora in salubri lontani villaggi, che utilizzavano Çatalhöyük, soltanto come Luogo Santo per loro sepolcreti, soggiornando (per lo più) nelle cumbessias per pochissimi giorni l’anno.[7]
[1] cumbessia è il vocabolo della lingua sarda, calzante a pennello rispetto a questa espressione cultuale del Neolitico antico, che il Mellaart chiama house. Nella lingua sarda indica l’abitazione destinata ad accogliere i componenti d’una famiglia di fedeli, che si recava a piedi e si reca, annualmente, a celebrare la festa del Santo, il cui santuario è distante dal proprio villaggio, anche fino a km. 15.
[2] J. Mellaart, 1967, Çatal Hüyük. A Neolithic Town in Anatolia, T&H, Lodon and Southampton, p.24.
[3] Qui troviamo un nuovo collegamento con la Sardegna. Nella “più grande isola del Mediterraneo” esistono alcune migliaia di tombe ipogeiche (chiamate in lingua sarda “domos de jana”) con vari ambienti che sono collegati a quello principale tramite un passaggio che permette il transito solo strisciando; in quelle più grandi (ce ne sono alcune che raggruppano fino a diciotto ambienti) è presente un “salone” d’ingresso con la volta a forma di tetto a doppia falda, ove sono disposti focolari elaborati e letti per la deposizione. Datazione: 4700-4000 BC.
[4] J. Mellaart, 1964, A Neolithic City in Turkey, in Scientific American, April, 1964: 94-104.
[5]C. Cessford, P. Blumbach, K.G. Akoğlu, T. Higham, P.I. Kuniholm, S. W. Manning, M.W. Newton, M.Özbakan & A.M. Özer, 2006, Absolute dating at Çatalhöyük, in Changing materialities at Çatalhöyük: reports from the 1995-99 seasons, I. Hodder ed., p.70; cfr. M. Stuiver and B. Becker, 1986, Radiocarbon calibration data for the 6th to the 8th millennia BC, in Radiocarbon, VOL 28, NO. 2B: 954-960.
[6] J. Mellaart, 1964, A Neolithic City in Turkey, in Scientific American, April, 1964, p. 97: “[…] Con tale dieta non è sorprendente scoprire dagli scheletri analizzati che gli abitanti erano generalmente in buona salute. I malanni alle ossa risultavano rari e lo stato dei denti era buono […]”.
[7] Ci piace qui ricordare che il nostro modello di frequentazione a Çatalhöyük, fu almeno intravisto da James Mellaart nel suo saggio del 1967. A p.60 egli affermò: «Tuttavia, per ragioni che spiegheremo appresso, sembra inverosimile che i templi-santuari fossero abitati continuamente»; ed a p.80 chiarisce il suo pensiero: «Non è impossibile che soltanto i maggiori templi-santuari servissero al pubblico culto, o fossero abitati soltanto periodicamente al momento delle grandi feste».