Riflessione sulle lezioni feliciter ed infeliciter
Riflessione sulle lezioni feliciter ed infeliciter
dei codici che riportano l’epitome di Giustino da Pompeo Trogo
confronto fra i codici delle classi g, i, p, t
Libro XVIII,7,1-2 nel testo delle classi i, g , p
(Carthaginienses)…Itaque aduersis tanto sceleri numinibus, cum in Sicilia diu infeliciter dimicassent, translato in Sardiniam bello, amissa majore exercitus parte, graui proelio uicti sunt: propter quod ducem suum Mazeum, cuius auspiciis et Siciliae partem domuerant, et adversus Afros magnas res gesserant, cum parte exercitus, quae superfuerat, exulare jusserunt….
(i Cartaginesi)…Fattisi dunque loro avversi per così gran scelleraggine gli dei, dopo aver lungamente combattuto con esito sfavorevole in Sicilia, trasferirono la guerra in Sardegna, dove, perduta la maggior parte dell’esercito, furono vinti in un grande fatto d’arme: per la qual cosa sdegnati contro Mazeus, loro condottiero, sotto i cui auspici avevano soggiogato una parte della Sicilia e compiuto grandi imprese contra gli Africani, lo mandarono in esilio insieme a quella parte dell’esercito che era scampata….
Nello studio dei testi moderni che narrino la storia del Mediterraneo occidentale della seconda metà del VI secolo a.c., troviamo un avverbio che assume una particolare valenza decisoria nell’assegnazione della vittoria sullo scontro fra i Siculi e il comandante cartaginese Mazeus. Quel tal’avverbio in effetti non decide soltanto a chi assegnare la vittoria fra Siculi e Mazeus, ma getta anche un’ombra od esalta, a seconda del suo orientamento, la successiva vittoria dell’esercito sardiano sul condottiero punico.
Ove infatti tale avverbio decreti la vittoria dei Siculi su Mazeus, anche la vittoria dei Sardiani[1] sullo stesso condottiero, assume un valore notevole: anzi vediamo come nella narrazione della fonte, le due vittorie dei Siculi e dei Sardiani si esaltino a vicenda, rimarcando quasi un continuum sulla debolezza militare dei Cartaginesi.
Ove invece si dia all’avverbio in questione, una accezione che indichi la vittoria di Mazeus sui Siculi, anche la vittoria dei Sardiani ne risulta sminuita, rappresentando essa, nell’incedere del racconto della stessa fonte, quasi un trascurabile incidente nel percorso militare di tal comandante: essa è infatti così rappresentata nei lavori che si occupino di storia della Sardegna, senza che mai si rilevi il certo consistente peso politico dei Sardiani in quella temperie di rapporti transmediterranei.
Il secolo XVI della nostra era fiorì nella riproduzione di lavori riguardanti la lettura e traduzione di Giustino e pertanto furono tante le stampe riproducenti le Storie Filippiche. Buona parte di tali testi da noi consultati riportano la lezione infeliciter, decretando la vittoria dei Siculi, in contrapposizione all’avverbio feliciter che trovasi sui testi dei quali ci si è serviti, per produrre una critica storica e filologica dell’epitome di Giustino, negli ultimi ottanta anni.
Prima di dare il nostro contributo alla scoperta del reale orientamento dell’avverbio, vediamo brevemente di fare il punto sulla genesi della fonte cui ascrivonsi le nostre osservazioni.
Pompeo Trogo, della stirpe dei Voconzi, popolazione stanziata nella Gallia Narbonese, nacque verso il 40 a.C. E’ possibile che svolgesse a Roma la sua attività culturale, durante la fine dell’ultimo secolo a.c. e l’inizio del primo d.C, mentre la sua opera di storia universale in quarantaquattro libri, Historiae Philippicae, fu resa pubblica, con una certa probabilità, fra il 14 ed il 30 d.C. Di quest’opera rimangono soltanto alcuni frammenti, mentre la sua parziale conoscenza ci è tramandata dal compendio che ne fece Marco Giuniano (o Giunianio) Giustino, del quale ci sono pervenuti molti manoscritti più o meno completi. L’epitome di Giustino (della cui vita quasi nulla conosciamo) fu probabilmente scritta fra il II e l’inizio del IV secolo d.C.[2]. Relativamente all’opera del Trogo ci sono anche giunti, da autore ignoto, forse un maestro di scuola, degli indici o sommari dei vari capitoli, conosciuti come prologi e redatti, indipendentemente dall’epitome, nel IV secolo d.c. e forse, più precisamente, nella seconda metà di esso. Reputiamo valide e pertinenti le considerazioni che descrivono il momento culturale in cui ebbero vita i prologi e le motivazioni della loro genesi, mentre abbiamo qualche riserva circa la sistemazione cronologica proposta ed accettata[3]. Relativamente al testo del Giustino, soggetto ad attenta critica da più parti, anche per la apparente impostazione del suo lavoro verso soli fini etici o dilettuosi, dobbiamo testimoniare essere essa fondamentale per la conoscenza di alcuni fatti storici a noi altrimenti ignoti; da più parti si annota come proprio questo suo disinteresse ad inserirsi nel testo del Trogo con elucubrazioni proprie, offra la sua epitome come ottimo materiale per lo studio delle Storie Filippiche. In quanto al giudizio sullo storiografo Pompeo Trogo, si è concordi nell’asserire che egli:…”ebbe …. vasti ed approfonditi interessi e seppe selezionare, con sensibilità e capacità critica, fra le tradizioni antiche le versioni più autentiche, per precisione e completezza di informazioni ed attendibilità”…[4]
Appropinquiamoci ora a sciogliere i nostri dubbi.
L’edizione critica di Otto Seel[5], nella trattazione della qualità dei codici, ovvero della loro rispondenza all’originale, esprime l’opinione dell’Autore in questi termini:…”fundamento igitur totius editionis classe t usus sum”…, cioè egli crede ragionevolmente, essere preferibile servirsi dei codici della classe t , (e continua) anche a fronte di quelli delle classi p, i, g i quali invece preferisce se univocamente differiscano da t nell’ortografia e negli errori più lievi.
Per lo scopo che ci prefiggiamo, il nostro modo di procedere, differisce decisamente da quello pur sommamente rispettabile del Seel. Infatti, al di là delle considerazioni filologiche, mentre siamo d’accordo, in linea generale, circa una più elegante vestizione grafica cui andarono soggetti i manoscritti della classe t, purtuttavia essa è anche la inesorabile spia che colloca la loro compilazione in epoca a noi più vicina.
Ma pur non volendo tener, al momento, nel debito conto l’ultima considerazione, noi riteniamo sulla base della più elementare argomentazione deduttiva, che i codici più anziani siano quelli più rispondenti all’originale; pertanto, pur avvalendoci del suo indispensabile lavoro, opereremo nel modo seguente.
Per prima cosa, fra tutti i manoscritti ivi elencati, prendiamo in considerazione solo quelli più antichi, datati ai secoli IX-XI, cioè:
classe t : A, G, M, V, Q, R
classe p : Y, O
classe i : E, F, S, L
classe g : C
Scartiamo ora quei codici che contengano i prologi. Poiché infatti essi furono redatti da un autore, diverso da Giustino, che operò in modo indipendente dall’Epitome ed in un tempo successivo alla sua stesura, questi avranno avuto una loro vita autonoma, in un testo indipendente, il quale sarà stato copiato e ricopiato in relazione alla quantità dei committenti interessati. Solo dopo qualche tempo (e comunque prima dell’VIII secolo, come vedremo) sarà andata sparendo quella linea sempre più sottile che divideva l’Epitome quale opera di rilievo storico, dai prologi quali grossolani titoli di capitoli, come li definì Seel, ed una qualche scuola di scrivani avrà deciso di accodare questi ultimi alla prima, sullo stesso manoscritto.
Il codice così composto, ove la sua genesi ricalchi il cammino da noi indicato, non può certo dare la stessa garanzia di anzianità degli altri codici selezionati. Riteniamo infatti, anche nella ottica che sovrintende alla nostra analisi, che i codici privi dei prologi abbiano avuto il loro archetipo nella epitome di Giustino originaria, o almeno in un manoscritto direttamente derivato. Al contrario i codici contenenti sia l’epitome che i prologi, in un ideale stemma, hanno la loro origine in un punto più basso, ovvero posteriore, rispetto ai precedenti[6], con tutte le possibili contaminazioni.
Pertanto i codici rimanenti saranno i seguenti:
classe t : M
classe p : Y, O
classe i : E, F, S, L
classe g : C
Ora poiché il vocabolo in discussione si trova nel libro XVIII, prendiamo in considerazione i manoscritti che contengano tale libro ed in esso il cap.7 ed il verso 1, ovvero:
classe t : M (ma di questo codice il Seel non fornisce la composizione)
classe i : E, F, S, L
classe g : C
Il Seel dichiara, nella nota al rigo 20 a p.162 del suo lavoro, che solo la classe t contiene la lezione feliciter. Ma del codice M non può dirsi questo, infatti abbiamo scoperto che fra i “paucos libros” contenuti in questo manoscritto, pur essendovi presente il libro XVIII, esso non va oltre il verso 10 del cap. 6 e pertanto non sappiamo quale dei due avverbi esso contenesse.
Ma tutti gli altri manoscritti contengono indistintamente la lezione infeliciter.
Pertanto ci pare che la premessa sottesa al nostro ragionamento ed i risultati ottenuti, ci conducano verso quella logicamente necessaria conseguenza che ci permette di scoprire la corretta lettura dell’episodio narrato nelle stesure originali, sia delle Storie Filippiche di Pompeo Trogo, che della Epitome redattane da Giustino. Il contenuto di tale episodio che troviamo in Giustino XVIII,7,1A, in lingua italiana recita esattamente così:
…”dopo aver lungamente combattuto con esito sfavorevole in Sicilia”…
Mentre la stesura, dello stesso episodio, riportata in molte pubblicazioni dell’ultimo secolo, è quì di seguito evidenziata:
…”dopo aver lungamente combattuto con esito favorevole in Sicilia”…
Una conferma della bontà del risultato da noi ottenuto ci viene da Paolo Orosio, cioè proprio da colui che, tra il 415 ed il 417 d.C.[7], quindi quasi a ridosso[8] della stesura dell’Epitome, si è servito nel redigere il suo lavoro, della lettura sia delle Storie Filippiche di Pompeo Trogo, che della sua epitome redatta da Giustino[9]. Ebbene, in lingua originale, così recita il passo di nostro interesse, il IV,6,7A, nelle “Storie contro i pagani” di Orosio:
…”cum in Sicilia diu infeliciter dimicassent”…
ed ecco cosa riportino i codici riproducenti l’Epitome, cui siamo arrivati attraverso il succitato procedimento:
…”cum in Sicilia diu infeliciter dimicassent”…
Come si può vedere Orosio ha trovato nella copia in suo possesso, sia che nell’occasione consultasse Trogo, sia che avesse sotto mano Giustino, proprio la lezione infeliciter: egli non ha fatto altro che trasferirla direttamente nelle sue Storie.
Ma una ancor maggiore pregnanza alla scoperta dell’infeliciter in Orosio, viene fornita dall’aver egli copiato per intero la frase nella quale è inserito l’avverbio, fugando con ciò qualsiasi dubbio circa una sua eventuale svista o un errore di copiatura riferentesi al solo infeliciter.
Per quanto enunciato più sopra, ci pare quasi pleonastico aggiungere che il codice da cui abbiamo tratto la confortante citazione di Orosio, sia il più antico in assoluto, sia fra quelli di Giustino, sia fra quelli di Orosio stesso: il Codex Laurentianus pl. 65,1, scritto in onciale e datato al V-VI secolo[10] e fu considerato dallo Zangemeister …”codex antiquissimus ab interpolationibus magis vacuus est quam ceteri omnes”…[11].
Bene, abbiamo ancora un'altra testimonianza, ma riteniamo con ragione non ve ne sarebbe stato bisogno, sulla bontà del risultato testè raggiunto circa l’orientamento del nostro avverbio.
È ancora Orosio nel codice Laurentianus 65,1 che ci recapita tale contributo, ecco il testo:
…”cum in Sicilia diu infeliciter dimicassent, traslato in Sardiniam bello iterum infelicius victi sunt”…
come si vede, quì in Orosio non troviamo le stesse parole di Giustino, ma troviamo una sorta di sunto del concetto che il presbitero (o forse Trogo stesso) esprime, ma con una gemma, rappresentata da quell’avverbio iterum, che ci documenta l’esatta misura della giustezza nell’assegnare al vocabolo infeliciter la paternità trogiana. Con piacere rendiamo in lingua italiana questa frase:
…”dopo aver lungamente combattuto con esito sfavorevole in Sicilia, trasferirono la guerra in Sardegna, ma anche lì furono vinti con danno maggiore”…. Quel termine anche che potevasi tradurre “per la seconda volta”, richiede obbligatoriamente la presenza di una prima volta, che è per l’appunto la sconfitta riportata in Sicilia dai Cartaginesi.
L’aver ormai accertato, con una buona dose di verosimiglianza, la non veridicità della lezione feliciter, e quindi la necessità di sostituirla col suo opposto infeliciter onde poter giungere alla esatta interpretazione del testo, ci rende anche edotti circa la non appartenenza agli scritti di Trogo e Giustino, di quella proposizione, che è presente solo nei codici riproducenti l’Epitome. Essa è inserita nel mezzo di una frase successiva, la quale è riportata quasi uguale, sia da Orosio che da Giustino.
Questa la frase in Orosio:
…“ propter quod ducem suum Mazeum et paucos qui superfuerant milites exulare iusserunt” ...
Questa la frase in Giustino :
...”propter quod ducem suum Mazeum......cum parte exercitus quae superfuerat exulare iusserunt”…
E questa è la glossa interpolata, nei codici pervenutici da Giustino, al posto dei (nostri) puntini di sospensione:
…”cuius auspiciis et Siciliae partem domuerant et adversus Afros magnas res gesserant” ...
Bene, accertato essere più fededegno il testo di Orosio, per la sua vetustà rispetto a quello pervenutoci di Giustino e per la sostanziale mancanza in esso di interpolazioni, ed accettata quindi la mancanza della glossa nel testo licenziato da questi, ne deduciamo che l’inizio del capitolo VII del libro XVIII dovesse essere il seguente:
(Carthaginienses)…Itaque aduersis tanto sceleri numinibus, cum in Sicilia diu infeliciter dimicassent, translato in Sardiniam bello, amissa majore exercitus parte, graui proelio uicti sunt: propter quod ducem suum Mazeum, cum parte exercitus, quae superfuerat, exulare jusserunt….
Bene, se quanto detto corrisponde ad una plausibile verosimiglianza, conseguentemente c’è da chiedersi quale mai motivo abbia generato l’inserimento di quella glossa, in un qualche passaggio localizzato fra il V-VI secolo ed il IX-XI secolo.
Riteniamo che qualche dotto scrivano, a conoscenza delle considerazioni di Polibio[12] nelle sue Storie (che sono all’incirca queste: i Cartaginesi consideravano la Sardegna e l’Africa settentrionale come terre loro, insieme a parte della Sicilia)[13] avrà voluto inserire quella frase con la certezza che fosse presente nell’originale di Trogo; sarà stato spinto a fare ciò per la presenza di una erasione più o meno lunga nel testo da cui stava copiando, invece dovuta ad una eliminazione cosciente di un qualche errore di scrittura del precedente copista[14]; seguendo Polibio, pensiamo che lo scrivano fosse tentato di inserire anche la Sardegna in questa sorta di generale sudditanza verso Cartagine, ma lo scritto di Giustino non gli permise di completare così la sua interpolazione, per la ingombrante presenza della digressione sull’insuccesso nell’isola da parte di Mazeus e sulla conseguente pesante punizione subita, al suo ritorno in patria.
Esattamente in questa fase (il IX secolo è il terminus ad quem, essendo il V-VI secolo il terminus a quo) riteniamo nasca il manoscritto di nuova versione, al quale fanno capo quelli pervenutici ed in particolar modo riteniamo che tale manoscritto possa essere la copia origine, che definiremo Archetipo B, cui faranno riferimento i codici delle classi i e g, e forse anche p, che contengono appunto sia la lezione infeliciter, sia la forma Mazeum, che la glossa appena scoperta. Ma non ci sentiamo di escludere che da detto Archetipo possa essere derivata anche la classe t .
Ritorniamo ora ad occuparci dell’operato degli scribi.
L’operazione interventista iniziata da quel monaco non poteva quì aver termine, perché il testo così organizzato metteva in risalto una forte contraddizione, fra il concetto espresso dalla sua interpolazione e la frase, che poggiando sul significato dell’infeliciter, descrive le gesta di Mazeus in Sicilia. Pensiamo che in un momento successivo della vita dei codici, un altro copista, forse di altra scuola, si sia soffermato a valutare il peso della palese incongruenza del testo nel suo insieme ed abbia cercato di comprendere quale ne fosse la causa:
- avrebbe potuto essere l’avverbio infeliciter, se trascritto erroneamente da un suo predecessore
- oppure la peraltro lunga considerazione sulle positive gesta di Mazeus in Sicilia ed Africa
Dobbiamo considerare che una sua eventuale analisi delle fonti storiche disponibili (leggasi Polibio[15]) avrebbe condotto il nostro scrivano a dar credito alla interpolazione; ma anche una più superficiale considerazione sulla necessità di un intervento poco invasivo, avrebbe condotto il nostro ad accettare l’idea che l’incongruenza fosse dovuta all’avverbio. Reputò che la sua presenza fosse dovuta ad un comprensibile errore di trascrizione: egli pertanto si accinse, credendo di rifondere il testo della sua antica verità, a correggere l’elemento linguistico infeliciter espungendone il prefisso privativo e trasformandolo nel vocabolo feliciter, con un’operazione di chirurgia grafica anche elegante.
In questo preciso istante viene perpetrato l’ultimo atto di falsificazione del testo di Giustino e contemporaneamente nasce l’Archetipo C, cui faranno riferimento i codici della classe t che soli, contengono appunto sia la detta interpolazione che l’avverbio feliciter, essendovi presenti anche i prologi, trovandovisi anche la forma Malchum quale appellativo del condottiero. Ebbene proprio questa versione, così pesantemente corrotta, ancorché elegante nella sua stesura testuale, è stata la fonte cui ci si è riferiti nel secolo scorso, per lo studio di Giustino.
In relazione poi all’apparato cronologico della tradizione manoscritta dell’Epitome è possibile affermare, per quanto fin quì discusso, che in un ideale stemma vengano posizionate prima le classi i e g , quindi la classe p, e dopo la classe t .
A questo punto ci sentiamo di fare una considerazione che getta nuova luce sull’ordine stesso in cui gli interventi dei copisti si sono verificati.
Così come Orosio ha tenuto conto di Giustino nella redazione del suo lavoro, anche gli scribi che si sono succeduti nei secoli nella copiatura dei codici di Orosio, hanno tenuto conto del contenuto dei codici di Giustino. Infatti mentre abbiamo visto che nel V-VI secolo nel Laurentianus pl.65,1 di Orosio, è presente il nostro avverbio infeliciter, lo stesso troviamo modificato nel suo opposto feliciter, in seno al Codex Donaveschingensis (D)[16], che pur risale allo stesso archetipo di L, ma è databile all’VIII secolo: quanto detto ci permetterebbe di datare approssimativamente la nascita del capofila dei codici della classe t di Giustino, che dovrebbe essere anteriore al codice D di Orosio e restringere quel lasso di tempo precedentemente indicato, in cui vide la nascita il manoscritto di nuova versione, diventando esso compreso fra il V-VI secolo e l’VIII secolo.
Come abbiamo visto, gli interventi, operati pur in buona fede dai preziosi copisti, hanno falsato la realtà degli accadimenti descritti da Pompeo Trogo, traendo in inganno i lettori del testo e creando fin quì irrisolti problemi nell’assegnazione di una corretta interpretazione in sede storica e politica, degli avvenimenti di quella importante parte della nostra storia passata. È appena il caso di aggiungere che ci siamo semplicemente limitati, per ora, a porre in essere un approfondimento di pochi versi dell’Epitome di Giustino, a fronte dei suoi quarantaquattro libri.
Spedito al prorettore dell’Università di Sassari Professor Attilio Mastino
oggi 22 novembre 2006
dei codici che riportano l’epitome di Giustino da Pompeo Trogo
confronto fra i codici delle classi g, i, p, t
Libro XVIII,7,1-2 nel testo delle classi i, g , p
(Carthaginienses)…Itaque aduersis tanto sceleri numinibus, cum in Sicilia diu infeliciter dimicassent, translato in Sardiniam bello, amissa majore exercitus parte, graui proelio uicti sunt: propter quod ducem suum Mazeum, cuius auspiciis et Siciliae partem domuerant, et adversus Afros magnas res gesserant, cum parte exercitus, quae superfuerat, exulare jusserunt….
(i Cartaginesi)…Fattisi dunque loro avversi per così gran scelleraggine gli dei, dopo aver lungamente combattuto con esito sfavorevole in Sicilia, trasferirono la guerra in Sardegna, dove, perduta la maggior parte dell’esercito, furono vinti in un grande fatto d’arme: per la qual cosa sdegnati contro Mazeus, loro condottiero, sotto i cui auspici avevano soggiogato una parte della Sicilia e compiuto grandi imprese contra gli Africani, lo mandarono in esilio insieme a quella parte dell’esercito che era scampata….
Nello studio dei testi moderni che narrino la storia del Mediterraneo occidentale della seconda metà del VI secolo a.c., troviamo un avverbio che assume una particolare valenza decisoria nell’assegnazione della vittoria sullo scontro fra i Siculi e il comandante cartaginese Mazeus. Quel tal’avverbio in effetti non decide soltanto a chi assegnare la vittoria fra Siculi e Mazeus, ma getta anche un’ombra od esalta, a seconda del suo orientamento, la successiva vittoria dell’esercito sardiano sul condottiero punico.
Ove infatti tale avverbio decreti la vittoria dei Siculi su Mazeus, anche la vittoria dei Sardiani[1] sullo stesso condottiero, assume un valore notevole: anzi vediamo come nella narrazione della fonte, le due vittorie dei Siculi e dei Sardiani si esaltino a vicenda, rimarcando quasi un continuum sulla debolezza militare dei Cartaginesi.
Ove invece si dia all’avverbio in questione, una accezione che indichi la vittoria di Mazeus sui Siculi, anche la vittoria dei Sardiani ne risulta sminuita, rappresentando essa, nell’incedere del racconto della stessa fonte, quasi un trascurabile incidente nel percorso militare di tal comandante: essa è infatti così rappresentata nei lavori che si occupino di storia della Sardegna, senza che mai si rilevi il certo consistente peso politico dei Sardiani in quella temperie di rapporti transmediterranei.
Il secolo XVI della nostra era fiorì nella riproduzione di lavori riguardanti la lettura e traduzione di Giustino e pertanto furono tante le stampe riproducenti le Storie Filippiche. Buona parte di tali testi da noi consultati riportano la lezione infeliciter, decretando la vittoria dei Siculi, in contrapposizione all’avverbio feliciter che trovasi sui testi dei quali ci si è serviti, per produrre una critica storica e filologica dell’epitome di Giustino, negli ultimi ottanta anni.
Prima di dare il nostro contributo alla scoperta del reale orientamento dell’avverbio, vediamo brevemente di fare il punto sulla genesi della fonte cui ascrivonsi le nostre osservazioni.
Pompeo Trogo, della stirpe dei Voconzi, popolazione stanziata nella Gallia Narbonese, nacque verso il 40 a.C. E’ possibile che svolgesse a Roma la sua attività culturale, durante la fine dell’ultimo secolo a.c. e l’inizio del primo d.C, mentre la sua opera di storia universale in quarantaquattro libri, Historiae Philippicae, fu resa pubblica, con una certa probabilità, fra il 14 ed il 30 d.C. Di quest’opera rimangono soltanto alcuni frammenti, mentre la sua parziale conoscenza ci è tramandata dal compendio che ne fece Marco Giuniano (o Giunianio) Giustino, del quale ci sono pervenuti molti manoscritti più o meno completi. L’epitome di Giustino (della cui vita quasi nulla conosciamo) fu probabilmente scritta fra il II e l’inizio del IV secolo d.C.[2]. Relativamente all’opera del Trogo ci sono anche giunti, da autore ignoto, forse un maestro di scuola, degli indici o sommari dei vari capitoli, conosciuti come prologi e redatti, indipendentemente dall’epitome, nel IV secolo d.c. e forse, più precisamente, nella seconda metà di esso. Reputiamo valide e pertinenti le considerazioni che descrivono il momento culturale in cui ebbero vita i prologi e le motivazioni della loro genesi, mentre abbiamo qualche riserva circa la sistemazione cronologica proposta ed accettata[3]. Relativamente al testo del Giustino, soggetto ad attenta critica da più parti, anche per la apparente impostazione del suo lavoro verso soli fini etici o dilettuosi, dobbiamo testimoniare essere essa fondamentale per la conoscenza di alcuni fatti storici a noi altrimenti ignoti; da più parti si annota come proprio questo suo disinteresse ad inserirsi nel testo del Trogo con elucubrazioni proprie, offra la sua epitome come ottimo materiale per lo studio delle Storie Filippiche. In quanto al giudizio sullo storiografo Pompeo Trogo, si è concordi nell’asserire che egli:…”ebbe …. vasti ed approfonditi interessi e seppe selezionare, con sensibilità e capacità critica, fra le tradizioni antiche le versioni più autentiche, per precisione e completezza di informazioni ed attendibilità”…[4]
Appropinquiamoci ora a sciogliere i nostri dubbi.
L’edizione critica di Otto Seel[5], nella trattazione della qualità dei codici, ovvero della loro rispondenza all’originale, esprime l’opinione dell’Autore in questi termini:…”fundamento igitur totius editionis classe t usus sum”…, cioè egli crede ragionevolmente, essere preferibile servirsi dei codici della classe t , (e continua) anche a fronte di quelli delle classi p, i, g i quali invece preferisce se univocamente differiscano da t nell’ortografia e negli errori più lievi.
Per lo scopo che ci prefiggiamo, il nostro modo di procedere, differisce decisamente da quello pur sommamente rispettabile del Seel. Infatti, al di là delle considerazioni filologiche, mentre siamo d’accordo, in linea generale, circa una più elegante vestizione grafica cui andarono soggetti i manoscritti della classe t, purtuttavia essa è anche la inesorabile spia che colloca la loro compilazione in epoca a noi più vicina.
Ma pur non volendo tener, al momento, nel debito conto l’ultima considerazione, noi riteniamo sulla base della più elementare argomentazione deduttiva, che i codici più anziani siano quelli più rispondenti all’originale; pertanto, pur avvalendoci del suo indispensabile lavoro, opereremo nel modo seguente.
Per prima cosa, fra tutti i manoscritti ivi elencati, prendiamo in considerazione solo quelli più antichi, datati ai secoli IX-XI, cioè:
classe t : A, G, M, V, Q, R
classe p : Y, O
classe i : E, F, S, L
classe g : C
Scartiamo ora quei codici che contengano i prologi. Poiché infatti essi furono redatti da un autore, diverso da Giustino, che operò in modo indipendente dall’Epitome ed in un tempo successivo alla sua stesura, questi avranno avuto una loro vita autonoma, in un testo indipendente, il quale sarà stato copiato e ricopiato in relazione alla quantità dei committenti interessati. Solo dopo qualche tempo (e comunque prima dell’VIII secolo, come vedremo) sarà andata sparendo quella linea sempre più sottile che divideva l’Epitome quale opera di rilievo storico, dai prologi quali grossolani titoli di capitoli, come li definì Seel, ed una qualche scuola di scrivani avrà deciso di accodare questi ultimi alla prima, sullo stesso manoscritto.
Il codice così composto, ove la sua genesi ricalchi il cammino da noi indicato, non può certo dare la stessa garanzia di anzianità degli altri codici selezionati. Riteniamo infatti, anche nella ottica che sovrintende alla nostra analisi, che i codici privi dei prologi abbiano avuto il loro archetipo nella epitome di Giustino originaria, o almeno in un manoscritto direttamente derivato. Al contrario i codici contenenti sia l’epitome che i prologi, in un ideale stemma, hanno la loro origine in un punto più basso, ovvero posteriore, rispetto ai precedenti[6], con tutte le possibili contaminazioni.
Pertanto i codici rimanenti saranno i seguenti:
classe t : M
classe p : Y, O
classe i : E, F, S, L
classe g : C
Ora poiché il vocabolo in discussione si trova nel libro XVIII, prendiamo in considerazione i manoscritti che contengano tale libro ed in esso il cap.7 ed il verso 1, ovvero:
classe t : M (ma di questo codice il Seel non fornisce la composizione)
classe i : E, F, S, L
classe g : C
Il Seel dichiara, nella nota al rigo 20 a p.162 del suo lavoro, che solo la classe t contiene la lezione feliciter. Ma del codice M non può dirsi questo, infatti abbiamo scoperto che fra i “paucos libros” contenuti in questo manoscritto, pur essendovi presente il libro XVIII, esso non va oltre il verso 10 del cap. 6 e pertanto non sappiamo quale dei due avverbi esso contenesse.
Ma tutti gli altri manoscritti contengono indistintamente la lezione infeliciter.
Pertanto ci pare che la premessa sottesa al nostro ragionamento ed i risultati ottenuti, ci conducano verso quella logicamente necessaria conseguenza che ci permette di scoprire la corretta lettura dell’episodio narrato nelle stesure originali, sia delle Storie Filippiche di Pompeo Trogo, che della Epitome redattane da Giustino. Il contenuto di tale episodio che troviamo in Giustino XVIII,7,1A, in lingua italiana recita esattamente così:
…”dopo aver lungamente combattuto con esito sfavorevole in Sicilia”…
Mentre la stesura, dello stesso episodio, riportata in molte pubblicazioni dell’ultimo secolo, è quì di seguito evidenziata:
…”dopo aver lungamente combattuto con esito favorevole in Sicilia”…
Una conferma della bontà del risultato da noi ottenuto ci viene da Paolo Orosio, cioè proprio da colui che, tra il 415 ed il 417 d.C.[7], quindi quasi a ridosso[8] della stesura dell’Epitome, si è servito nel redigere il suo lavoro, della lettura sia delle Storie Filippiche di Pompeo Trogo, che della sua epitome redatta da Giustino[9]. Ebbene, in lingua originale, così recita il passo di nostro interesse, il IV,6,7A, nelle “Storie contro i pagani” di Orosio:
…”cum in Sicilia diu infeliciter dimicassent”…
ed ecco cosa riportino i codici riproducenti l’Epitome, cui siamo arrivati attraverso il succitato procedimento:
…”cum in Sicilia diu infeliciter dimicassent”…
Come si può vedere Orosio ha trovato nella copia in suo possesso, sia che nell’occasione consultasse Trogo, sia che avesse sotto mano Giustino, proprio la lezione infeliciter: egli non ha fatto altro che trasferirla direttamente nelle sue Storie.
Ma una ancor maggiore pregnanza alla scoperta dell’infeliciter in Orosio, viene fornita dall’aver egli copiato per intero la frase nella quale è inserito l’avverbio, fugando con ciò qualsiasi dubbio circa una sua eventuale svista o un errore di copiatura riferentesi al solo infeliciter.
Per quanto enunciato più sopra, ci pare quasi pleonastico aggiungere che il codice da cui abbiamo tratto la confortante citazione di Orosio, sia il più antico in assoluto, sia fra quelli di Giustino, sia fra quelli di Orosio stesso: il Codex Laurentianus pl. 65,1, scritto in onciale e datato al V-VI secolo[10] e fu considerato dallo Zangemeister …”codex antiquissimus ab interpolationibus magis vacuus est quam ceteri omnes”…[11].
Bene, abbiamo ancora un'altra testimonianza, ma riteniamo con ragione non ve ne sarebbe stato bisogno, sulla bontà del risultato testè raggiunto circa l’orientamento del nostro avverbio.
È ancora Orosio nel codice Laurentianus 65,1 che ci recapita tale contributo, ecco il testo:
…”cum in Sicilia diu infeliciter dimicassent, traslato in Sardiniam bello iterum infelicius victi sunt”…
come si vede, quì in Orosio non troviamo le stesse parole di Giustino, ma troviamo una sorta di sunto del concetto che il presbitero (o forse Trogo stesso) esprime, ma con una gemma, rappresentata da quell’avverbio iterum, che ci documenta l’esatta misura della giustezza nell’assegnare al vocabolo infeliciter la paternità trogiana. Con piacere rendiamo in lingua italiana questa frase:
…”dopo aver lungamente combattuto con esito sfavorevole in Sicilia, trasferirono la guerra in Sardegna, ma anche lì furono vinti con danno maggiore”…. Quel termine anche che potevasi tradurre “per la seconda volta”, richiede obbligatoriamente la presenza di una prima volta, che è per l’appunto la sconfitta riportata in Sicilia dai Cartaginesi.
L’aver ormai accertato, con una buona dose di verosimiglianza, la non veridicità della lezione feliciter, e quindi la necessità di sostituirla col suo opposto infeliciter onde poter giungere alla esatta interpretazione del testo, ci rende anche edotti circa la non appartenenza agli scritti di Trogo e Giustino, di quella proposizione, che è presente solo nei codici riproducenti l’Epitome. Essa è inserita nel mezzo di una frase successiva, la quale è riportata quasi uguale, sia da Orosio che da Giustino.
Questa la frase in Orosio:
…“ propter quod ducem suum Mazeum et paucos qui superfuerant milites exulare iusserunt” ...
Questa la frase in Giustino :
...”propter quod ducem suum Mazeum......cum parte exercitus quae superfuerat exulare iusserunt”…
E questa è la glossa interpolata, nei codici pervenutici da Giustino, al posto dei (nostri) puntini di sospensione:
…”cuius auspiciis et Siciliae partem domuerant et adversus Afros magnas res gesserant” ...
Bene, accertato essere più fededegno il testo di Orosio, per la sua vetustà rispetto a quello pervenutoci di Giustino e per la sostanziale mancanza in esso di interpolazioni, ed accettata quindi la mancanza della glossa nel testo licenziato da questi, ne deduciamo che l’inizio del capitolo VII del libro XVIII dovesse essere il seguente:
(Carthaginienses)…Itaque aduersis tanto sceleri numinibus, cum in Sicilia diu infeliciter dimicassent, translato in Sardiniam bello, amissa majore exercitus parte, graui proelio uicti sunt: propter quod ducem suum Mazeum, cum parte exercitus, quae superfuerat, exulare jusserunt….
Bene, se quanto detto corrisponde ad una plausibile verosimiglianza, conseguentemente c’è da chiedersi quale mai motivo abbia generato l’inserimento di quella glossa, in un qualche passaggio localizzato fra il V-VI secolo ed il IX-XI secolo.
Riteniamo che qualche dotto scrivano, a conoscenza delle considerazioni di Polibio[12] nelle sue Storie (che sono all’incirca queste: i Cartaginesi consideravano la Sardegna e l’Africa settentrionale come terre loro, insieme a parte della Sicilia)[13] avrà voluto inserire quella frase con la certezza che fosse presente nell’originale di Trogo; sarà stato spinto a fare ciò per la presenza di una erasione più o meno lunga nel testo da cui stava copiando, invece dovuta ad una eliminazione cosciente di un qualche errore di scrittura del precedente copista[14]; seguendo Polibio, pensiamo che lo scrivano fosse tentato di inserire anche la Sardegna in questa sorta di generale sudditanza verso Cartagine, ma lo scritto di Giustino non gli permise di completare così la sua interpolazione, per la ingombrante presenza della digressione sull’insuccesso nell’isola da parte di Mazeus e sulla conseguente pesante punizione subita, al suo ritorno in patria.
Esattamente in questa fase (il IX secolo è il terminus ad quem, essendo il V-VI secolo il terminus a quo) riteniamo nasca il manoscritto di nuova versione, al quale fanno capo quelli pervenutici ed in particolar modo riteniamo che tale manoscritto possa essere la copia origine, che definiremo Archetipo B, cui faranno riferimento i codici delle classi i e g, e forse anche p, che contengono appunto sia la lezione infeliciter, sia la forma Mazeum, che la glossa appena scoperta. Ma non ci sentiamo di escludere che da detto Archetipo possa essere derivata anche la classe t .
Ritorniamo ora ad occuparci dell’operato degli scribi.
L’operazione interventista iniziata da quel monaco non poteva quì aver termine, perché il testo così organizzato metteva in risalto una forte contraddizione, fra il concetto espresso dalla sua interpolazione e la frase, che poggiando sul significato dell’infeliciter, descrive le gesta di Mazeus in Sicilia. Pensiamo che in un momento successivo della vita dei codici, un altro copista, forse di altra scuola, si sia soffermato a valutare il peso della palese incongruenza del testo nel suo insieme ed abbia cercato di comprendere quale ne fosse la causa:
- avrebbe potuto essere l’avverbio infeliciter, se trascritto erroneamente da un suo predecessore
- oppure la peraltro lunga considerazione sulle positive gesta di Mazeus in Sicilia ed Africa
Dobbiamo considerare che una sua eventuale analisi delle fonti storiche disponibili (leggasi Polibio[15]) avrebbe condotto il nostro scrivano a dar credito alla interpolazione; ma anche una più superficiale considerazione sulla necessità di un intervento poco invasivo, avrebbe condotto il nostro ad accettare l’idea che l’incongruenza fosse dovuta all’avverbio. Reputò che la sua presenza fosse dovuta ad un comprensibile errore di trascrizione: egli pertanto si accinse, credendo di rifondere il testo della sua antica verità, a correggere l’elemento linguistico infeliciter espungendone il prefisso privativo e trasformandolo nel vocabolo feliciter, con un’operazione di chirurgia grafica anche elegante.
In questo preciso istante viene perpetrato l’ultimo atto di falsificazione del testo di Giustino e contemporaneamente nasce l’Archetipo C, cui faranno riferimento i codici della classe t che soli, contengono appunto sia la detta interpolazione che l’avverbio feliciter, essendovi presenti anche i prologi, trovandovisi anche la forma Malchum quale appellativo del condottiero. Ebbene proprio questa versione, così pesantemente corrotta, ancorché elegante nella sua stesura testuale, è stata la fonte cui ci si è riferiti nel secolo scorso, per lo studio di Giustino.
In relazione poi all’apparato cronologico della tradizione manoscritta dell’Epitome è possibile affermare, per quanto fin quì discusso, che in un ideale stemma vengano posizionate prima le classi i e g , quindi la classe p, e dopo la classe t .
A questo punto ci sentiamo di fare una considerazione che getta nuova luce sull’ordine stesso in cui gli interventi dei copisti si sono verificati.
Così come Orosio ha tenuto conto di Giustino nella redazione del suo lavoro, anche gli scribi che si sono succeduti nei secoli nella copiatura dei codici di Orosio, hanno tenuto conto del contenuto dei codici di Giustino. Infatti mentre abbiamo visto che nel V-VI secolo nel Laurentianus pl.65,1 di Orosio, è presente il nostro avverbio infeliciter, lo stesso troviamo modificato nel suo opposto feliciter, in seno al Codex Donaveschingensis (D)[16], che pur risale allo stesso archetipo di L, ma è databile all’VIII secolo: quanto detto ci permetterebbe di datare approssimativamente la nascita del capofila dei codici della classe t di Giustino, che dovrebbe essere anteriore al codice D di Orosio e restringere quel lasso di tempo precedentemente indicato, in cui vide la nascita il manoscritto di nuova versione, diventando esso compreso fra il V-VI secolo e l’VIII secolo.
Come abbiamo visto, gli interventi, operati pur in buona fede dai preziosi copisti, hanno falsato la realtà degli accadimenti descritti da Pompeo Trogo, traendo in inganno i lettori del testo e creando fin quì irrisolti problemi nell’assegnazione di una corretta interpretazione in sede storica e politica, degli avvenimenti di quella importante parte della nostra storia passata. È appena il caso di aggiungere che ci siamo semplicemente limitati, per ora, a porre in essere un approfondimento di pochi versi dell’Epitome di Giustino, a fronte dei suoi quarantaquattro libri.
Spedito al prorettore dell’Università di Sassari Professor Attilio Mastino
oggi 22 novembre 2006
[1] È nostra consuetudine fare ricorso a questo etnico, felicemente coniato dal M. Pittau-1995- Origine e parentele dei Sardi e degli Etruschi, saggio storico-linguistico, ed. Delfino, pur con una diversa accezione, ogniqualvolta intendiamo riferirci a quegli abitatori che elessero come proprio, quel lembo di terra nel Mediterraneo, dal Pleistocene Medio Iniziale, fino al 238 a.c..
[2] O. Seel-1972- M. Iuniani Iustini epitoma historiarum Philippicarum Pompei Trogi, ed. Teubner, Stuttgard, praefatio p.III; cfr. L. Santi Amantini-1981- Giustino, Storie Filippiche. Epitome da Pompeo Trogo, ed. Rusconi, passim; cfr. G. Forni e M.G. Angeli Bertinelli-1982- Pompeo Trogo come fonte di storia, in ANRW II, 30.2:1298-1362.
[3] F. Lucidi-1975- Nota ai “prologi” delle Historiae Philippicae di Pompeo Trogo, in Rivista di Cultura Classica e Medioevale, XVII:173-180, passim e p. 180.
[4] G. Forni e M.G. Angeli Bertinelli-1982- op. cit..
[5] O. Seel-1972- Op.cit., p. X della praefatio.
[6] Si deve peraltro osservare come detti codici, in linea teorica, possano anch’essi avere il testo dell’epitome derivante dall’archetipo di Giustino o di un suo diretto discendente, prova ne sia il fatto che il Codex Laurentianus Pluteus 66,19, classificato dal Seel come appartenente alla classe p e comprendente anche i prologi, contenga la lezione infeliciter, la lezione Mazeum e la glossa, di cui parleremo tra breve, esattamente come i manoscritti delle classi i e g . Dobbiamo però avvertire che tale manoscritto sia datato al XIV secolo.
[7] Agostino,vescovo di Ippona, dopo la pubblicazione della prima parte del De civitate Dei, si accorse che il suo progetto necessitava di una storia ancorché apologetica, ma meno teologica e più diretta ai laici. A tal fine incaricò Orosio che ebbe modo di confutare le menzogne dei pagani, che attribuivano ai cristiani le colpe delle attuali disgrazie.
[8] A distanza di circa un secolo.
[9] C. Zangemeister-1882- Pauli Orosii Historiarum Adversum Paganos libri VII, in Corpus Scriptorum Ecclesiasticorum Latinorum, Vindibonae, IV,6,1:…”sicut Pompeius Trogus et Iustinus exprimunt”….
[10] A. Lippold-2001- Orosio, le Storie contro i Pagani, trad. A. Bartalucci, fond. Valla, ed. Mondatori , introduzione p. XLVII.
[11] K. Zangemeister-1882- op.cit., p. VII della praefatio; cfr. A. Lippold-2001- op.cit., p.XLVII della introduzione.
[12] Polibio, Storie, III,23,5A e III,24,14.
[13] Mentre invece sappiamo benissimo che questo è un errore inspiegabilmente perpetrato da Polibio (ma noi ci basiamo su quanto riportato dai più antichi codici pervenuti) nei riguardi della esatta interpretazione del contenuto del trattato fra Cartagine e Roma, che invece dichiara essere la Sardegna e la Libia degli stati liberi e indipendenti, in contrapposizione alla Sicilia parzialmente occupata.
[14] O forse dovuta ad una imperfezione della membrana utilizzata, che poteva essere anche di seconda mano.
[15] Secondo la tradizione dei manoscritti di Polibio la data più antica (947 d.c.) è da assegnare al codice Vaticanus Gr. 124, che contiene appunto i libri I-V delle Storie; tale codice ha un suo archetipo dal quale deriva anche la Tradizione Bizantina; ma è stato individuato un archetipo che trovasi in uno stadio ancora anteriore. Per questi motivi riteniamo possibile che nella fase di copiatura dei codici di Giustino fosse in circolazione anche il manoscritto contenente il libro III delle Storie. Vedasi J.M. Moore-1965- The manuscript tradition of Polybius, ed. Cambridge Un. Press, pp. 39-41 e 171-172; cfr. J. De Foucault, E. Foulon, M. Molin-2004- Polybe Histoires, Tome III, Livre III, ed. Les Belles Lettres, p.XXVI e sgg. della notice.
[16] K. Zangemeister-1882- op.cit., p.VIIII e X della praefatio, la datazione dal codice avviene per merito delle “litteris Langobardicis” con cui è trascritto, contiene poche interpolazioni, ma è pieno di barbarismi; cfr. A. Lippold-2001- op.cit., IV,6,7, nota al rigo 25, p.278.